Due anni fa, in questa stessa rubrica, mi chiedevo e chiedevo al sindacato quale ritenesse essere il suo mandato e ruolo nella formazione dei giovani e dei futuri lavoratori. In altre parole, mi chiedevo e chiedevo al sindacato quale potesse/dovesse essere la visione e la prospettiva sindacale che intendeva proporre agli apprendisti o ai giovani lavoratori e se ritenesse di avere ancora un esplicito mandato per offrire loro quanto meno una traccia di formazione su quali siano i loro diritti, sul ruolo e l’importanza del loro lavoro nel ciclo produttivo e, non da ultimo, sui loro doveri di lavoratori. Un compito importante, credo, per il futuro del sindacato, diventato sempre più pressante e urgente di fronte ad una realtà economica in cui il lavoro è ormai definitivamente precarizzato e sfilacciato, in un contesto lavorativo cioè dove la trasmissione della “cultura operaia” sul posto di lavoro non può più avvenire. O forse bisognerebbe dire semplicemente in un mondo del lavoro in cui la cultura operaia non esiste praticamente più. Sulla base di queste considerazioni, invitavo il sindacato a riflettere sulla possibilità di pensare a rifondare quelle scuole di formazione operaia che erano state così importanti nei primi anni del secolo XX. Quelle scuole che avevano permesso ai lavoratori di crescere e diventare loro stessi veicoli di diffusione della cultura operaia. Quelle scuole nate e cresciute quando si trattava di introdurre la “cultura operaia” dentro le fabbriche, dentro i processi produttivi. Una riflessione, credo, centrale per il sindacato stesso, soprattutto di fronte al dissolvimento (e non riesco a trovare un termine più appropriato) del contesto e della filosofia sindacale che conoscevamo in passato. Prenderne atto oggi è importante. Come è importante avere sempre presenti quali siano le ragioni di questo cambiamento, non dimenticando come la principale causa dello stesso sia da ascrivere all’odierno modello di sviluppo, con le profonde trasformazioni sociali, culturali e politiche derivate dai fenomeni della globalizzazione e della finanziarizzazione dell’economia che esso ha generato. Ma è altrettanto importante dire che questo “dissolvimento” dell’efficacia sindacale è anche una responsabilità diretta del sindacato per il ritardo un po’ colpevole con cui ha (o non ha) affrontato e adeguato i suoi meccanismi di funzionamento e di lavoro ai cambiamenti in atto nella società. Ne deriva il fatto che l’azione sindacale che conoscevamo oggi non riesce più ad essere uno strumento in grado di dar forza, capacità contrattuale e maggior rappresentanza ai lavoratori. Oggi il sindacato si è trasformato in un servizio, un servizio certamente molto utile e importantissimo, ma quasi solo in un servizio. Non è più uno strumento d’azione che ha l’ambizione, vuole cambiare o quanto meno contribuire ad indirizzare l’evoluzione della società. La domanda da porsi è allora se si senta, dentro il sindacato, la necessità di ri-costruire una nuova cultura del lavoro e della lotta sindacale, aggiornata e rifondata sulle nuove realtà, sui nuovi mercati, sui nuovi modelli del lavoro. Senza perdere i propri principi e i propri obbiettivi di fondo certamente, ma cambiando radicalmente l’approccio, gli strumenti, le modalità dell’azione sindacale sul territorio. Anche perché tapparsi le orecchie, gli occhi e soprattutto il naso e andare avanti dritti credo abbia ormai dimostrato, in modo chiaro, la propria inefficacia, rendendo semplicemente più fragili e impalpabili un pezzettino per volta, ogni giorno, i diritti dei lavoratori. E la domanda da porsi è allora forse la stessa di due anni fa: il sindacato ha interesse e voglia di intraprendere questo certamente non facile percorso? Ci sono l’interesse e la volontà di riflettere sui sistemi di rappresentanza, di reclutamento, di formazione, di militanza – in un concetto: di azione – e di modificare profondamente il proprio ruolo per tornare ad essere un sindacato di lotta e non solo di servizio?
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