Al Jazeera all’attacco della Cnn

Incontrare Hassan Ibrahim, un omone dall’aria gioviale e sempre pronto alla battuta, significa trovarsi di fronte un pezzo importante della storia di Al Jazeera, il primo network televisivo veramente libero del mondo arabo con sede nel Qatar. Al Jazeera è nata nel novembre del 1996, sulla spinta di un gruppo di ex giornalisti della Bbc Arabic Television, ed è diventata in breve tempo famosa sia nel mondo arabo (per l’inedito approccio alle notizie) che in Occidente (per la costanza con cui in poco tempo ha saputo sconfiggere i network occidentali nel riferire con tempestività e precisione di fatti del mondo arabo, dalla Palestina all’Afghanistan, dall’Iraq ad Osama Bin Laden). Fra i fondatori di Al Jazeera c’era anche Ibrahim. Di origine sudanese, rampollo di una ricca famiglia liberale che lo mandò a studiare dapprima in Arabia Saudita (nella stessa scuola che stava frequentando anche Bin Laden), poi all’Università negli Stati Uniti, Ibrahim fu direttore delle news della Bbc Arabic Television ed è oggi produttore responsabile di Al Jazeera. Ma, sfruttando la sua popolarità, fa ancora l’inviato per seguire eventi particolari. In questa intervista, realizzata l’estate scorsa a margine della retrospettiva “Newsfront” organizzata dal Festival del film di Locarno, Ibrahim spiega qual è lo specifico di Al Jazeera e l’impatto che la rete satellitare qatarense ha avuto sul mondo arabo. Un impatto che, con il nuovo canale in lingua inglese, potrebbe essere anche maggiore in Occidente e negli Stati Uniti in particolare, dove il punto di vista arabo è oggi del tutto marginalizzato. Motivo in più per l’amministrazione Bush di temere le immagini di Al Jazeera. Hassan Ibrahim, a cosa attribuisce il successo di Al Jazeera? Nel mondo arabo c’era bisogno di un’informazione più aperta. Il nostro pubblico era diventato molto scettico nei confronti dell’informazione, e all’inizio avevamo paura che la gente considerasse Al Jazeera come un elemento in più di questo fallimento dei media. Ma siamo riusciti a caratterizzarci, proponendo con rigore un punto di vista arabo sull’attualità. Seguiamo tutte le regole del giornalismo, ma non nascondiamo il nostro retroterra culturale, che è arabo, e la nostra sensibilità. Ora la gente riconosce la nostra specificità e ci apprezza. Che impatto ha avuto Al Jazeera sulla società araba? È difficile dirlo dopo così poco tempo: forse ha portato ad un modo diverso di percepire le cose. E credo anche che Al Jazeera abbia imposto uno standard nuovo nell’informazione nel mondo arabo: perché ora anche i giornalisti di altri media chiedono ai loro capi la stessa libertà di cui disponiamo noi. Abbiamo alzato il limite, abbiamo reso più dinamica la scena dei media arabi, aumentando la libertà d’espressione in medio oriente. E lo constato guardando oggi le tv arabe nostre concorrenti, che ora ad esempio propongono molti più dibattiti. La stessa apertura non c’è ancora nell’establishment politico del mondo arabo, che è sempre molto chiuso su sé stesso e conservatore e teme di dover un giorno rendere conto al popolo del suo operato. Alla fine del 2005 debutterà il vostro programma in lingua inglese. Esso sarà realizzato da 300 collaboratori in quattro centri di produzione e sarà indipendente dal canale in lingua araba. A che pubblico vi rivolgerete: ai musulmani in Occidente o alla società occidentale in generale? A tutta la società occidentale. Il nostro obiettivo è di fare concorrenza alla Cnn e alla Bbc. E speriamo anche di raccogliere molta pubblicità, perché trasmettendo in inglese non saremo più legati ai condizionamenti del mondo arabo, dove a molti governi Al Jazeera non piace e quindi fanno in modo che non ci arrivi pubblicità. La star del giornalismo americano Carl Bernstein, colui che fece scoppiare lo scandalo Watergate, sostiene che i media migliori sono quelli americani perché negli Usa c’è più libertà che in qualsiasi altro posto al mondo. Concorda? Obiettivamente il livello di apertura e di tutela dei diritti umani nelle società occidentali è superiore che nel mondo arabo. Negli Usa, malgrado le interconnessioni fra media e amministrazione e la presenza di personaggi molto influenti sui media nell’amministrazione stessa, c’è se non altro una costituzione che ti garantisce il diritto di dissentire. Allora è una questione di scelte. Se come giornalista scegli di non esporti mai per non avere fastidi, puoi condurre un’esistenza molto tranquilla. Ma essere giornalista implica prendere delle posizioni. Negli Usa non tutti i giornalisti hanno il coraggio di prendere una posizione, ma almeno possono scegliere di prenderla o meno. In altre parti del mondo, l’unico posto in cui si può ancora aprire liberamente la bocca è lo studio del dentista. Se un giornalista deve saper prendere posizione, significa che è libero di esprimere la sua opinione su Al Jazeera anche su temi delicati? Un giornalista deve saper scegliere fra ciò che ritiene giusto e ciò che ritiene sbagliato. Ma ad Al Jazeera non ci sono predicatori. Prendiamo l’esempio dei diritti delle donne nel mondo arabo. Non è detto che avere una posizione debba implicare un commento su una questione tanto delicata. Ma per Al Jazeera è importante che tutti i punti di vista abbiano modo di essere illustrati e che ci siano persone che si confrontano in trasmissione su di essi. Per noi non c’è un’opinione completamente giusta e una completamente sbagliata: è attraverso il dibattito contraddittorio e libero fra due persone che il pubblico capirà e potrà fare la sua scelta. Sono convinto dell’importanza e dell’efficacia dei dibattiti contraddittori in televisione per far evolvere una società. Per questo un giornalista non deve fare lezioni di democrazia, ma informare sforzandosi di proporre al suo pubblico la verità impiegando al meglio i mezzi di cui dispone. Ritiene che il compito di Al Jazeera sia solo di informare o anche di educare il suo pubblico? Parlare di missione educativa è molto pericoloso, perché si assume il ruolo di un attivista e non quello di un giornalista. Ma è vero che in un certo senso anche il giornalista ha una funzione educativa, perché si sforza nel limite dei suoi mezzi di fornire la verità al suo pubblico. Ed è proprio la verità che molto spesso manca alla gente. Del resto alla tv non c’è bisogno di spiegare cos’è giusto e cos’è sbagliato, perché lavoriamo con un’arma molto pericolosa che è la telecamera: e quando il pubblico vede un carro armato israeliano che distrugge una casa palestinese, non c’è bisogno di spiegargli che da una parte ci sono i cattivi israeliani e dall’altra i buoni palestinesi, lo capisce da solo. Quindi sì, facciamo informazione, ma è anche vero che l’informazione implica sempre una certa educazione. Cosa risponde a chi vi accusa di essere i portavoce di Osama Bin Laden e di averne in sostanza creato il mito? Che allora saremmo anche i portavoce di Sharon, di Blair e di Bush. In realtà siamo una rete televisiva d’informazione, e il nostro compito è trasmettere quelle che riteniamo essere delle notizie. Se Sharon, che pure odia gli arabi, dice qualcosa che ci sembra essere una notizia, lo trasmettiamo, senza per questo diventare suoi portavoce. Così, se Bin Laden, ma anche Bush, Blair o Berlusconi, fanno notizia, ne parliamo. Ma ammetterà che Osama Bin Laden è diventato molto popolare anche perché Al Jazeera ne ha sempre diffuso i messaggi in tutto il mondo arabo. No, non è vero. Bin Laden è molto popolare in certi strati della popolazione araba a causa delle ingiustizie, delle oppressioni, delle umiliazioni, delle degradazioni, dell’enorme divario fra la leadership araba e le masse popolari, della mancanza di democrazia, del conflitto israelo-palestinese e così via. Bin Laden non aveva e non ha bisogno di Al Jazeera. Basti guardare quanto è popolare fra i musulmani in Europa. Sentite forti pressioni dai governi del Golfo o da leader religiosi? Sì e no. Lavoriamo in una regione dove i governi hanno l’abitudine di interferire molto nel lavoro dei giornalisti, ma noi abbiamo la fortuna di essere in Qatar, uno Stato nel quale la nostra indipendenza è garantita. Certo, gente che ci accusa di essere filoamericani o filosionisti piuttosto che amici del terrorismo islamista ce n’è molta. Ma il mio timore principale è che ad Al Jazeera entrino giornalisti che hanno paura dell’apertura e della libertà d’espressione. Non ho elementi concreti per dire che ciò stia accadendo, ma qualche sentore qua e là sì. E questo mi inquieta molto. Crede che i media occidentali abbiamo delle responsabilità per quanto accade in Iraq o in Palestina? Non penso che i governi occidentali abbiano un influsso diretto sulle redazioni. Credo però ci sia una predisposizione culturale nell’abbordare i soggetti dell’attualità. Se guardiamo Cnn, Abc, Cbs e così via ci accorgiamo che esse hanno un approccio coloniale all’informazione su quanto accade in medio oriente. Ad esempio i palestinesi e gli iracheni sono rappresentati come persone di seconda categoria la cui vita in fondo vale poco. In passato si parlava del mondo arabo soltanto in termini di sceicchi pieni di petrolio, dollari e concubine. Oggi siamo invece rappresentati come popoli incapaci di imparare la lezione e pigri. Ma non è vero: anche da noi si lavora duramente. I media occidentali amano molto queste semplificazioni per tirare delle linee di demarcazione nette. Forse quelli europei differenziano di più. Ma per esempio negli Usa è molto difficile far capire che ci sono anche dei palestinesi cristiani o ebrei.

Pubblicato il

29.04.2005 04:00
Gianfranco Helbling