Ai e giustizia sociale

«Lavoro al posto di rendite». Questo uno degli slogan del comitato favorevole alla quinta revisione dell'Assicurazione invalidità (Ai) in votazione il 17 giugno. Intento nobile; peccato non si dica come realizzarlo. Il testo di legge della quinta revisione non propone nulla di concreto. Affida l'integrazione al lavoro dei disabili alla buona volontà del padronato. Purtroppo nella realtà l'economia non brilla per il suo senso civico. L'etica negli affari oggi è nei migliori dei casi una buona operazione di marketing. La logica del capitale ha preso del tutto il sopravvento sulla responsabilità sociale. Non a caso, nella stragrande maggioranza dei paesi dell'Unione europea l'integrazione dei disabili nelle aziende è stata regolata da quote obbligatorie di assunzione minime: in Germania è del 6 per cento di posti per di-   sabili in ditte con più di 16 dipendenti, in Francia del 6 per cento in aziende con più di 20 impiegati, in Italia del 15 per cento in imprese con più di 35 dipendenti.
Un approccio diverso da quello proposto in votazione popolare è dunque possibile, partendo dal presupposto che è il lavoro che genera l'invalidità. Non è una tesi avventata, ma poggia su fior di statistiche che dimostrano che la causa più importante dell'invalidità è il lavoro. Lo stesso Ufficio federale delle assicurazioni sociali nel suo foglio informativo del settembre 2006 scrive: «Vari studi hanno analizzato la relazione tra appartenenza a determinate categorie professionali o settori economici e l'invalidità. I risultati mostrano che il rischio d'invalidità varia molto da settore a settore. Tra i fattori che portano all'invalidità, oltre alle ristrutturazioni nei singoli settori, vanno menzionate la crescente pressione cui sono sottoposti i lavoratori rimasti, la continua accelerazione dei ritmi lavorativi e la paura di perdere il posto di lavoro». È dunque logico che i costi dell'invalidità siano assunti da chi li genera, il padronato. L'impostazione europea induce gli imprenditori a migliorare la prevenzione degli infortuni e a creare buone condizioni di lavoro per evitare costi futuri più elevati. Gli effetti: meno invalidi da lavoro, migliore integrazione lavorativa per i disabili, e una ripartizione dei costi secondo i principi della causalità e della solidarietà.
Con la quinta revisione dell'Ai accade invece il contrario. I costi devono essere sopportati da chi è diventato invalido al lavoro. Peggio ancora, l'onere finanziario è addebitato a tutti coloro che percepiscono una rendita Ai. Scaricare sulla collettività un costo generato dal privato significa però appropriarsi individualmente dei profitti generati dal lavoro di molti e liberarsi della responsabilità dei costi derivanti dalla propria attività. I profitti a me, i costi a tutti, è una forma di parassitismo. Questa è la posta in gioco con la quinta revisione dell'Ai. Dire no alla quinta revisione è un atto di giustizia sociale. 

Pubblicato il

25.05.2007 00:30
Francesco Bonsaver