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Agota Kristof e quel dolore
di
Virginia Pietrogiovanna
Fra la fine di novembre e l'inizio di dicembre del 1956 a causa dei moti di Ungheria la scrittrice Agota Kristof (che allora aveva ventun anni) passa la frontiera fra il suo paese e l'Austria e l'8 dicembre entra in Svizzera, dove resterà ad abitare per sempre. In Ungheria lascia tutto, "i miei fratelli" – come scrive nel suo racconto autobiografico "L'analfabeta" (Casagrande, Bellinzona, 2006) – "i miei genitori, senza avvisarli, senza dir loro addio, o arrivederci". E perde definitivamente "la mia appartenenza a un popolo". Una ferita, quella dello sradicamento, che si porterà dentro per tutta la vita, rimpiangendo con dolore gli anni dell'infanzia, la felicità perduta.
Agota Kristof non perdonerà mai al suo primo marito, un insegnante di storia costretto a fuggire dall'Ungheria per sottrarsi ad una condanna quasi certa a seguito dei moti dell'autunno '56, di averla strappata dal suo paese e di averla condotta con una bimba di quattro mesi in braccio attraverso mille difficoltà. Divorzierà da lui e si risposerà con un fotografo elvetico (dal quale pure divorzierà in seguito), ma resterà sempre incapace di soffocare l'amarezza che le ha adombrato la vita.
Tracce e testimoni della profonda ferita che l'abbandono della sua patria e della sua famiglia hanno provocato in Agota Kristof sono innanzitutto i suoi scritti, dove regna quell'aridità stilistica divenuta la caratteristica più spiccata dei suoi romanzi. Parole secche, frasi brevi, un ritmo incalzante che non cede una virgola al sentimentalismo e alla retorica, ma anzi acuisce quel senso di vuoto creato dal nichilismo di fondo che campeggia nelle opere di Agota Kristof. Un umorismo nero che a tratti diviene cinismo e all'orizzonte, per i personaggi, nessuna possibilità di riscatto.
Agota Kristof ritorna con insistenza nelle sue opere alla sua infanzia perduta, ai giorni trascorsi con i suoi fratelli, ai giochi e ai luoghi che le sono stati cari, ma nulla dopo il lacerante distacco sarà più come prima, e allora anche l'unico periodo felice, l'infanzia, nei suoi scritti si adombra di grevi presagi, diviene violento e duro, i bambini che lo popolano spaventano per la loro serietà, per la mancanza di sorrisi e di slancio e appaiono sempre in bilico fra superiorità intellettuale e follia.
Nessuna parola di conforto nei suoi lavori, per sé o per gli altri profughi scappati con lei dall'Ungheria nel 1956. Solo l'atto stesso della scrittura, il fatto di mettere tutta la propria amarezza su carta è stato di conforto ad Agota Kristof. Fino al 1995.
È da quell'anno infatti che Agota Kristof non pubblica nulla di nuovo. Risale a quell'anno "Ieri", il romanzo ambientato in Svizzera dal quale Silvio Soldini ha tratto il film "Brucio nel vento". Tutto ciò che Agota Kristof ha fatto pubblicare da allora è stato scritto diversi anni prima, addirittura ancora prima della stesura del suo romanzo maggiore, "Il grande quaderno", uscito da Seuil nel 1986. Risale all'inizio degli anni Settanta una delle prime prove in lingua francese dell'autrice: i racconti confluiti nella raccolta "La vendetta", editi in italiano da Einaudi, lo scorso anno, per motivi di diritti, ma disseppelliti per merito dell'editore Casagrande di Bellinzona dall'archivio letterario di Berna, al quale Agota Kristof ha regalato diversi manoscritti. Anche "L'analfabeta" (edito in italiano da Casagrande nel 2005), non è che la ripresa di scritti già vecchi: contributi inviati alla rivista culturale "Du" di Zurigo, che le aveva chiesto tempo addietro di raccontare la sua vita. E così pure "Dove sei Mathias?", da poco uscito in italiano ancora per i tipi di Casagrande di Bellinzona, che contiene due racconti giovanili di Kristof, uno dei primi anni Settanta e l'altro datato 1978. Altro materiale sicuramente verrà pubblicato, perché Agota Kristof ha permesso di accedere all'archivio letterario di Berna e di trarne tutto ciò che la concerne. Il resto è silenzio.
Ma il dubbio che Agota Kristof fosse giunta ad un capolinea o che non riuscisse in un certo modo a sbrogliare la sua matassa interiore se non nell'aria, aleggiava certo fra le righe dei suoi scritti. Leggendo il corpus delle sue opere non può non colpire il continuo, esacerbante ruminìo della stessa materia, delle stesse tematiche. L'insistenza per il tema gemellare, per il doppio io; il tempo che dilata e deforma la realtà e gli affetti; l'infanzia come momento privilegiato di lucidità e intuizione, un'infanzia che è sempre felice e violenta insieme; lo spaesamento e l'alienazione: ogni linea tematica riaffiora puntuale di opera in opera, cambiando forma narrativa, diventando pièce teatrale o racconto o novella, tanto che regolarmente citazioni e interi passaggi circolano intatti da un libro all'altro. L'impressione che se ne ricava è che questo incessante macinare non solo le abbia avvelenato il sangue, ma non l'abbia condotta ad una soluzione. La scrittura non l'ha guarita. Ne "L'analfabeta" scrive: «per sopportare il dolore della separazione non mi resterà che una soluzione: scrivere».
E ora rinunciando per sempre alla scrittura Agota Kristof ha deciso senz'altro che per il suo dolore non v'è più alcun rimedio.
Agota Kristof, nell'autunno del 1956 lei lasciò definitivamente l'Ungheria per passare in Austria e poi in Svizzera, dove tuttora risiede. Allora aveva ventun anni e una figlia di quattro mesi. Dal punto di vista di madre, come ricorda quei giorni?
Sembrerà strano, eppure per quel che riguarda mia figlia è stato tutto molto semplice. Appena arrivati in Austria siamo stati alloggiati dapprima in un campo profughi dove c'era tutto il necessario per badare alla piccola e poi le coppie con figli sono state poste presso dei contadini dove io ho potuto nutrire, cambiare e badare a mia figlia davvero con agio. Anche dopo il trasferimento con il bus fino a Vienna non ho incontrato difficoltà, né tanto meno al mio arrivo in Svizzera: mia figlia era in buona salute non ho mai avuto di che preoccuparmi.
Dopo il suo arrivo in Svizzera lei è diventata madre altre due volte. Con tre figli e il lavoro (in una fabbrica di orologi) come riusciva a trovare la concentrazione per scrivere?
Nel periodo in cui lavoravo in fabbrica avevo solo la primogenita, che consegnavo il mattino all'asilo nido e andavo a riprendere la sera, prima di rincasare. Allora scrivevo solamente poesie, le scrivevo sul lavoro a brutta copia, mentre andavano le macchine. Poi una volta a casa davo la cena alla piccina, la mettevo a dormire e passavo la sera a copiare quello che avevo scritto.
E quando sono arrivati gli altri figli?
Scrivere è stato più complicato, certo, lo facevo soprattutto la sera.
Cosa vorrebbe aver trasmesso di sé ai propri figli?
Nulla di speciale a dire la verità. I miei figli sono tutti attivi in campo artistico. La più giovane è attrice, mio figlio è musicista e la maggiore, quella venuta con me dall'Ungheria, è responsabile del Dipartimento della cultura del canton Neuchâtel.
I suoi scritti parlano spesso di persone sradicate. Come si sente lei dopo cinquant'anni passati in Svizzera?
Mi sento ancora ungherese.
Non ha mai pensato di tornare in Ungheria?
Certo, ma a causa dei bambini sono rimasta qui.
Se un tempo la scrittura era il mezzo per far fronte al dolore – come scrive lei stessa ne "L'analfabeta" – cosa rappresenta oggi la scrittura per lei?
Nulla. Oggi non scrivo più del tutto e francamente non ho più voglia di scrivere.
Per questo le sue ultime pubblicazioni sono materiale scritto diversi anni or sono?
Sì, l'ultima pubblicazione (in italiano: "Dove sei Mathias", Casagrande, 2006, nda) raccoglie due racconti che risalgono a molto, molto tempo fa (gli anni Settanta, nda).
In questi racconti, come nella trilogia dei suoi romanzi (in particolare nel "Il grande quaderno") si ritrova il tema dei fratelli. In che rapporti è oggi con i suoi fratelli?
Abbiamo dei buonissimi rapporti, ci sentiamo spesso al telefono. Sono appena stata a Budapest a trovarli dove abbiamo trascorso delle piacevoli giornate insieme.
Si ricorda che impressione aveva suscitato loro la lettura del suo romanzo maggiore, "Il grande quaderno"? Vi si erano ritrovati?
Eccome! Hanno riso entrambi. Si sono riconosciuti e hanno pure riconosciuto diverse situazioni ed episodi che erano accaduti durante la nostra infanzia.
Nelle sue opere si trovano sempre gli stessi temi di fondo. Da dove viene la necessità di mescolare sempre gli stessi elementi?
Non ne ho la più pallida idea, è un processo che avviene da solo, senza che ci sia un controllo da parte mia.
Una poesia circola in diverse opere. È quella che appare in veste di dedica in "Ieri" (cfr. riquadrato). È un testo a cui tiene?
Sì, è un testo che ho scritto molto tempo fa, quando ero giovane e spensierata. L'avevo scritto in ungherese, solo in un secondo tempo l'ho tradotto in francese.
Il primo verso di questa poesia dice: "Prima era tutto più bello". È ancora così per lei? Oppure anche l'oggi e il domani sono diventati belli?
No. Prima era tutto più bello.
Pubblicato il
08.12.06
Edizione cartacea
Anno IX numero 49
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