«Non so», «non conosco nel dettaglio», «non sono in grado di rispondere», «posso solo presumere». Sono quasi tutte risposte di questo genere quelle fornite lunedì al processo per la strage dell'Eternit in corso a Torino dall'imprenditore svizzero Thomas Schmidheiny (fratello dell'imputato Stephan), sentito dai giudici come persona informata dei fatti, unitamente a Leo Mittelholzer, un fedelissimo della famiglia che nel 1984 fu mandato in Italia ufficialmente per compiere un «estremo tentativo» di salvataggio di Eternit Italia ma di fatto per far chiudere le fabbriche del cancro.

Chiamato a deporre dal procuratore Raffaele Guariniello, Schmidheiny ha fatto il suo ingresso in aula penale da una porta di servizio, riuscendo così ad evitare il confronto diretto con i giornalisti e i molti rappresentanti delle vittime di Casale Monferrato (sempre presenti in massa alle udienze) che lo attendevano all'ingresso del tribunale. Scuro in volto e visibilmente teso, Thomas Schmidheiny ha risposto a tutte le domande ma è stato parco di dettagli. Si è limitato a confermare che era suo fratello Stephan (accusato di disastro doloso continuato e inosservanza di misure di sicurezza sui luoghi di lavoro) a tirare le fila della multinazionale dell'amianto a partire dalla metà degli anni Settanta, quando il padre Max avviò il processo di spartizione dell'impero tra i figli, cedendo gradualmente a lui il settore del cemento e a suo fratello Stephan quello dell'amianto. Il tutto al termine di un periodo di formazione che i due svolsero separatamente nelle aziende di famiglia in Perù, Brasile e Sudafrica.
«Non abbiamo mai lavorato insieme», ha precisato Thomas Schmidheiny, senza sbilanciarsi troppo ma lasciando intendere che ai vertici dell'Eternit si conoscesse quanto nocivo fosse l'amianto per la salute dei lavoratori. Anche perché, ha spiegato, suo fratello Stephan aveva «molto a cuore» la sicurezza. «Tant'è che si era occupato della questione in prima persona scrivendo articoli di giornali e persino un libro». Thomas dice di non sapere molto di più su questa questione.
Ma era un tema sentito all'interno della famiglia Smidheiny? «Io discutevo con mio padre Max delle questioni relative al settore del cemento, immagino che lo stesso facesse mio fratello per gli argomenti di sua pertinenza», ha precisato con teutonica freddezza sotto lo sguardo attento e pieno di dolore dei parenti delle vittime che affollavano le tribune dell'aula penale. «Ne avevo sentito parlare qualche volta a tavola, ma solo in termini generici», ha aggiunto di fronte alle domande incalzanti dei magistrati e degli avvocati di parte civile, ma precisando più volte che lui si è sempre occupato solo di cemento. Come dire che dell'amianto e delle sue conseguenze sulla salute dei lavoratori non si è mai interessato. Del resto, interrogato dal presidente della Corte Giuseppe Casalbore circa le ragioni che indussero il padre Max a dividere in due tronconi l'azienda di famiglia (che nel mondo controllava un migliaio di società) e ad affidare ad un figlio piuttosto che all'altro i rami del cemento e dell'amianto, Thomas Schmidheiny ha tagliato corto: «Io e mio fratello avevamo due visioni differenti di cultura e di principi manageriali».
Interrogato  ripetutamente sui contenuti delle conversazioni familiari, ha infine ammesso di aver sentito suo fratello «accennare alla necessità di abbandonare gradualmente la produzione con fibre di amianto». Sei anni fa, gli ha dunque fatto notare la procuratrice Sara Panelli (vice di Guariniello), aveva però dichiarato in un interrogatorio che «verso la metà degli anni Settanta suo fratello Stephan cercava di convincere il padre Max a non più utilizzare l'amianto in quanto cancerogeno». Ma in aula non ha voluto confermare e ha continuato a ripetere che «erano questioni che venivano probabilmente discusse nell'ambito della gestione aziendale» a cui lui, occupandosi solo di cemento, non si interessava. Ha osato persino dire di «non conoscere» la Eternit Sa di Niederurnen (acquistata dalla sua Schmidheiny nel 1920!).
Sull'argomento è stato molto più loquace e preciso Leo Mittelholzer, che è pure apparso molto più rilassato e a tratti anche strafottente. Forse perché maggiormente abituato all'ambiente delle aule di tribunale essendo già stato processato due volte per la strage dell'Eternit: a Casale Monferrato nel 1993 (dove fu scagionato) e in Sicilia (condannato in prima istanza nel 2005 a due anni e quattro mesi per omissione intenzionale di misure di sicurezza sul luogo di lavoro, ma in seguito assolto).
Sentito come testimone in quanto amministratore delegato dell'Eternit Italia tra il 1984 e il 1986 (anno del fallimento, su autoistanza, della società), il 59enne economista appenzellese (oggi Ceo della Holcim Germania) ha raccontato candidamente che già negli anni Settanta «la necessità di una strategia di disimpegno dall'amianto» era «un tema di discussione ricorrente nei congressi e nelle riunioni del management» del gruppo Eternit, operativo in tutto il mondo attraverso un centinaio di società. Mittelholzer si ricorda in particolare di alcune «riunioni strategiche dirette da Stephan Schmidheiny» con all'ordine del giorno «il tema dell'abbandono dell'amianto, della sua sostituzione e di una sua lavorazione in sicurezza nel periodo di transizione»: una del 1979 e una seconda «del 1981-1982». Ma è anche al corrente di una che si era tenuta «nel 1976-'77».
In ogni caso, sin dal suo arrivo in Eternit nel 1979 (con un primo incarico a Johannesburg, nel Sudafrica dell'apartheid dove gli Schmidheiny facevano affari d'oro), sapeva che la sfida consisteva nel sostituire l'amianto con nuove tecnologie e che in attesa di questo bisognava cercare di contenere i danni. «In Sudafrica -ha spiegato- avevamo a disposizione anche un medico a cui chiedere informazioni di dettaglio sugli effetti dell'amianto, anche se tutti i manager erano già informati sulle varie patologie ad esso legate, così come sulle differenti legislazioni nazionali in materia».
Ripercorrendo l'attività svolta in Italia (con il mandato di ristrutturare un'azienda in crisi), Mittelholzer ha sottolineato il suo «impegno in favore della sicurezza dei lavoratori» concretizzatosi con investimenti di 10-15 miliardi di vecchie lire, «nonostante la difficile situazione». Ma di fronte alle richieste di particolari da parte degli avvocati, il manager si è come bloccato e solo a fatica ha ammesso che gli interventi a tutela della salute dei lavoratori si limitarono a poca cosa: bagnatura dell'amianto prima dell'utilizzo, sostituzione dei filtri degli aspiratori e riduzione della velocità di rotazione delle seghe per tagliare i tubi («in modo da generare meno polvere»).
Del resto, ha precisato, «delle tecnologie alternative all'amianto erano state trovate e, con l'avallo dei miei superiori (leggasi Stephan Schmidheiny, ndr) proposi ai concorrenti italiani di adottarle insieme. Avremmo avuto costi superiori, tutti quanti, ma la concorrenza non ne avrebbe risentito. Non si fece nulla, perché gli altri non vollero. E continuammo la produzione dei nostri manufatti con l'amianto». Anche perché «le leggi lo consentivano», ha concluso sotto gli sguardi attoniti dei cittadini di Casale Monferrato, che proprio il giorno dopo hanno dovuto apprendere dell'ennesima morte per mesotelioma pleurico di una loro concittadina. Questa volta, dopo quattro anni di malattia e sofferenze, è toccato a Luisa Minazzi, già assessore del Comune, e militante dell'Associazione delle vittime. Aveva 58 anni.

Pubblicato il 

09.07.10

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