Capita di leggere tre informazioni rilevate in realtà diverse, piccole e grandi, emerse nello stesso tempo con denominatori comuni, che diventano un allarme. La criminalità finanziaria sembra l’attività più in crescita in Ticino. Lo scorso anno il ministero pubblico ha aperto complessivamente 11.124 nuovi casi, un aumento del 5 per cento rispetto all’anno precedente. La differenza è dovuta all’aumento dei delitti economici: riciclaggio di denaro sporco e false fatture emesse da società anonime registrate nel Ticino, evasione fiscale delle imprese, investimenti speculativi fraudolenti nella gestione dei patrimoni. “Di fronte ai delitti economici il Ticino è in una situazione d’urgenza”, commenta il procuratore generale John Noseda. L’Ufficio di comunicazione in materia di riciclaggio di denaro (Mros), integrato all’Ufficio federale di polizia, funge da filtro e da tramite tra gli intermediari finanziari e le autorità inquirenti. Riceve segnalazioni di sospetto (di riciclaggio, finanziamento terrorismo, valori patrimoniali di illecita provenienza, organizzazioni criminali) e le comunica a chi di dovere. Lo scorso anno ha avuto una media di undici segnalazioni per giorno lavorativo, un aumento del 23 per cento rispetto all’anno prima. Si è provocato un ingorgo nei servizi federali che hanno dovuto riportare su quest’anno 487 dossiers inevasi. La somma ruotante attorno a quelle segnalazioni è valutata 5,3 miliardi di franchi. Oxfam, organizzazione non governativa internazionale, pubblica analisi di carattere economico-finanziarie. Nell’ultimo rapporto dimostra come le 20 maggiori banche europee ricorrono tutte ai paradisi fiscali. Vi realizzano il 26 per cento dei loro utili, benché quei paradisi rappresentino solo il 12 per cento della loro cifra d’affari e il 7 per cento dei loro impiegati. Da questo confronto risulta l’enorme differenza tra gli utili che le maggiori banche (comprese quelle svizzere) generano nei paradisi fiscali e il livello di attività economica reale che procurano nel proprio paese. È d’altronde una conferma di quanto già emerso negli undici milioni di documenti contenuti nei famosi “Panama papers” (dove apparivano pure studi legali e banche luganesi). Tutto questo capita ancora nonostante la strombazzata lotta ai paradisi fiscali. Le crisi finanziarie (siamo sempre nell’ultima) sono ripetitive, globalizzate, violente per le conseguenze sociali, distruttrici per l’impatto sui bilanci pubblici e familiari. Sono anche criminali per l’azione svolta da organizzazioni delittuose e dai cosiddetti “colletti bianchi” (élites bancarie e finanziarie). Nella visione classica liberale, le crisi finanziarie sono sempre viste come momenti di correzione, di ritrovamento degli equilibri. Mai come sintomi di crescente depredazione e spoliazione di pochi, organizzati, a danno dei più, indifesi. Ciò che in mille modi e fughe per la tangente (vedi paradisi fiscali) si cerca di non affrontare è però la dimensione criminogena del sistema. È vero, con una innegabile difficoltà: il sistema, grazie all’informatica, crea automaticamente la propria invisibilità. Frodi e manipolazioni diventano difficili da definire da un punto di vista etico e giuridico o impossibili da osservare e dimostrare da un punto di vista materiale. Ciò che emerge, benché in misura crescente, è sempre la punta dell’iceberg. Se però allo Stato (alla Giustizia) si tolgono mezzi, come si è fatto e si sta facendo, la deriva verso l’anomia, la depredazione e la frode pura non crea tanto un’urgenza (Noseda) quanto una ineluttabilità. Ed è l’agonia della democrazia.
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