Adriano resta il vero "rock"

Sessantasette anni portati alla grande, una capacità straordinaria di far ballare tutti, giovani, anziani, politica di destra e di sinistra, burocrati televisivi. Adriano Celentano ha paura di una sola cosa, come Asterix, Obelix e Abraracourcix. Ma a differenza degli irriducibili galli, il suo terrore non è che il cielo gli cada sulla testa. Celentano ha paura di viaggiare in aereo (e in nave). Curioso, proprio lui che vola alto e fa volare una nazione intera. Sarà per questo che nonostante nel suo dna ci sia l’americanissimo rock, Celentano è italianissimo, tra i pochi capaci di resistere al canto delle sirene (culturali) d’oltre Atlantico. Italianissimo, basti pensare a uno dei suoi grandi successi, Azzurro, molto più popolare dell’Inno di Mameli nonostante gli sforzi patriottardi del presidente Carlo Azeglio Ciampi. Semmai, nella hit parade nazional-popolare, «io quasi quasi prendo il treno/ e corro/ corro da te» (badate bene, un treno e non un aereo o una nave) deve vedersela più con Sapore di sale di Gino Paoli che non con Fratelli d’Italia. In testa Celentano non ha l’elmo di scipio ma un sacco di idee, quelle che gli hanno consentito di rivitalizzare i moribondi ascolti della Rai berlusconizzata. Intanto è uno showman scandalosamente geniale, sa fare spettacolo e audience. Sa scegliere la squadra e se ne fotte del politically correct. Dà il microfono a coloro a cui la censura berlusconica (con compiacenze sinistre) l’ha tolto. Vedi il redivivo Michele Santoro che pur di tornare – sia pure da ospite – sullo schermo ha dato le dimissioni da europarlamentare, alla faccia delle decine di migliaia di italiani/e che l’avevano votato. Dà il microfono anche a chi viene regolarmente espulso dai salotti buoni dell’industria musicale, come la scandalosa Loredana Bertè. Soprattutto, è capace di mettere in scena un lungo quanto esilarante duetto canoro, teatrale, ballerino e guittesco con un’altra star nazionale: Roberto Benigni. Siamo la coppia più bella del mondo è riuscita a far ridere e divertire in prima serata più della metà dei telespettatori italiani, l’altra metà ha riso e s’è divertita in differita, nei Blob e nei talkshow. La prima dote straordinaria di Celentano, però, resta il canto, la musica, un po’ sacrificate nelle quattro giornate televisive della sua ultima apparizione sullo schermo. La destra italiana dev’essere proprio alla canna del gas, se non è più neanche capace di capire che mettersi contro il molleggiato equivale a mettersi contro il “popolo italiano”. Una volta il Cavaliere di Arcore era un genio nel cogliere gli umori anche più profondi del paese reale, oggi non va – lui e i suoi cloni – oltre le proteste capricciose e le richieste di «trasmissioni risarcitorie». Ha trasformato giornalisti normali in improbabili eroi (Santoro, Biagi, Travaglio, ecc.), stesso dicasi nel campo dello spettacolo, con il risultato devastante che la satira (Guzzanti, Grillo) si fa politica e la politica si fa comica. Comica tragica. In un paese in cui si sta spazzando via la par condicio, in nome delle trasmissioni bipartisan si uccide la televisione. Ecco perché uno come Celentano funziona, perché ti fa sperare che un’altra televisione è possibile. Sempre che si sia disposti a non delegare la politica a lui e ad altri guitti, rockstar, giornalisti trombati. Con la logica della delega non si può non finire tra i critici di Celentano, fino a condividerne la censura preventiva dei burocrati Rai (che minacciano di autosospendersi, come Del Noce). Così c’è il presidente (diessino) Petruccioli che fa i distinguo sui testi, oppure gli onorevoli (gay e diessini, come Grillini) che si indigna quando il molleggiato proclama rock i gay ma lenti i matrimoni tra gay. E gli ultrasinistri che se la prendono con la classificazione tra i lenti, anzi lentissimi, Zapatero. Scopriamo adesso che Celentano è un cattolicone convinto? Non ci ricordiamo «pregherò/ per te/ che hai la notte nel cuor»? Il nostro è sempre stato contrario all’aborto, e allora? Mica deve fare le leggi, Celentano. Deve cantare e fare spettacolo, che lo faccia, allora. C’è poi chi contesta il suo passatismo («e quella casa in mezzo al verde/ dove sarà») e il suo legame con ogni genere di vegetale – «là dove c’era l’erba...», «tra l’oleandro/ e il baobab». Certo, il suo ambientalismo è diverso dal nostro e Il ragazzo della via Gluck non ha il mito del progresso. E chi se ne frega, anzi, non viene proprio dai movimenti no-global, dai Marco Revelli, la critica più dura – giusta o sbagliata che sia – ai miti della sinistra novecentesca? Viva Celentano, allora. A cui vanno il nostro saluto e ventiquattro mila baci. Con la speranza di rivederlo presto in onda, e soprattutto di riascoltarlo.

Pubblicato il

11.11.2005 03:00
Loris Campetti