L’incombente rivoluzione tecnologica porterà cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, con il rischio di un’emarginazione economica e sociale di molte persone. Un’impasse per la politica e i poteri pubblici chiamati a consentire ad ognuno di avere un reddito e una previdenza sufficienti. Un problema già sorto nell’800: allora le democrazie emergenti pur avendoli fatto propri, non avevano tradotti in pratica i “Principi di libertà e uguaglianza”, inscritti nella Carta dei diritti dell’uomo del 1792. La libertà politica era limitata a pochi cittadini. L’uguaglianza economica restava una chimera : salari da fame per chi aveva lavoro, per gli altri soppiantati dalle macchine un inferno. L’integrazione progressiva del lavoro nelle moderne fabbriche generò cambiamenti che incisero sull’organizzazione sociale. Mutarono progressivamente fino a spezzarsi i legami di solidarietà e di sostegno caratteristici dell’“ancien régime”, poggianti sostanzialmente sulla famiglia patriarcale quale unità economica autosufficiente. Ci vollero varie inchieste sulla situazione operaia in Francia e in Inghilterra, svolte a metà ’800, e le spinte riformatrici per far prendere consapevolezza della nuova povertà a notabili e benestanti che detenevano le redini del potere pubblico. Nacquero idee riformatrici, fra le maggiori quella prossima al liberalismo e al cattolicesimo sociale, che riteneva necessario instaurare un insieme di obblighi morali tra i membri della società al fine di sovvenire ai bisogni della categorie sociali povere, senza però stravolgere l’organizzazione economica e politica esistente. La ricetta: maggior responsabilità individuale, carità privata se necessario, senza tuttavia creare una beneficenza pubblica che incoraggerebbe l’imprevidenza. L’altra corrente, che sarà denominata del socialismo radicale, criticava l’ordine sociale del liberalismo, e i principi politici ed economici del capitalismo, mettendo in discussione il diritto di proprietà privata, puntando su idee associazioniste che lavoratori e nuovi proletari faranno proprie, sviluppando e sperimentando nuove pratiche collettive, di auto-aiuto, di rappresentanza. Gli economisti, a maggioranza di stampo liberale, rimanevano convinti che qualsiasi ostacolo alla concorrenza avrebbe aumentato la povertà operaia, e che la soluzione al pauperismo risiedesse nello sviluppo della responsabilità individuale dell’operaio. Il dibattito politico si fece via via vigoroso e il clima acceso per la pressione dei movimenti operai e le sommosse popolari. La Chiesa scese allo scoperto a fine secolo con l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII nel 1891, che denunciava le ripercussioni sociali generate dal capitalismo industriale, auspicando il riconoscimento delle organizzazione sindacali operaie quali attori per regolare i rapporti con i proprietari, da improntare sulla solidarietà cristiana, e sollecitando lo Stato ad assumere un ruolo attivo per dirimere i conflitti “tra capitale e lavoro”. Insomma una posizione mediana, tra il laisser faire / laisser aller liberale e le idee del socialismo radicale. La soluzione alla questione sociale fu l’adozione tra fine ’800 e metà ’900 di politiche di welfare comprendenti malattia, invalidità, disoccupazione, e vecchiaia. L’Impero tedesco di Bismark fu il primo forgiando nel 1883 le leggi dello Stato sociale; buona Cenerentola la Svizzera che varò l’Avs solo nel 1948. Oggidì il welfare mostra segni di debolezza, appare inadeguato per affrontare la complessa nuova questione sociale. Come nell’800 urge uscire dai binari del déjà vu per trovare un’altra soluzione.
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