Di lui hanno detto in tanti: ha sprovincializzato l’Italia, e non soltanto perché ha contribuito a far conoscere questo paese in tutto il mondo, non più esclusivamente per il mare, il sole, la pizza Margherita o, al massimo, il parmigiano e i capi d’abbigliamento di lusso. L’avvocato Gianni Agnelli ha contribuito, si dice, a far entrare l’Italia nel novero dei paesi che contano e partecipano ai vertici mondiali. Come tutti i luoghi comuni, questa considerazione ha incontestabili elementi di verità. Resta comunque un dubbio: come mai i giornali di un paese sprovincializzato dedicano alla morte di Mr. Fiat più pagine che non all’11 settembre? Forse anche a Lugano saranno arrivati echi di pagine e pagine di prosopea, telegiornali e speciali agiografici, protagonismi di chiunque possa giurare: «io sì che l’ho consiuto bene». E allora avanti con le testimonianze e le interviste della serie “Io e l’Avvocato”, con tanto di maiuscola sulla A e di fotografia a testimonianza dell’incontro benedetto. Forse la stessa cosa sarebbe capitata in qualsiasi altro paese, anche se chi ricorda la morte e i funerali di Henry Ford II può testimoniare ben altra e più pacata reazione. Non può essere soltanto il provincialismo, evidentemente non del tutto debellato dall’uomo più potente d’Italia, ad aver trasformato i funerali di un industriale nel più importante evento nazionale (internazionale per l’italica percezione). Innanzitutto, bisogna ricordare che il fatto si è verificato nel momento più drammatico della storia della Fiat, la multinazionale dell’auto ferita gravemente da una gestione e da una proprietà che negli ultimi anni hanno abdicato al loro ruolo sognando straordinarie performance finanziarie, in uno scenario ideologico postindustriale e postnovecentesco. Gianni Agnelli, nell’immaginario collettivo nazionale e nelle speranze dei suoi duecentomila lavoratori sparsi nei cinque continenti,, rappresentava un ancoraggio a una storia comune, collettiva. Una storia densa di conflitti anche durissimi perché densa di lavoro. L’avvocato era, prima che senatore a vita e tutte le cariche e gli epiteti che accompagnano il suo nome, il padrone della Fiat, cioè della “fabbrica” per eccellenza che per decenni ha attratto gente dal Mezzogiorno d’Italia e l’ha trasformata in produttori, proletari. Classe, si potrebbe dire. L’avvocato era l’erede di suo nonno fondatore e poi del ragionier Valletta, quello che prometteva a tutti i suoi dipendenti e alle loro famiglie sicurezza e garanzie “dalla culla alla tomba”. L’avvocato è stato l’ultimo ostacolo alla definitiva finanziariazzazione dell’azienda, almeno nell’immaginario, anche perché con lui sono iniziati i processi di globalizzazione e il conseguente forte allentamento del radicamento “locale”, nel territorio. A Torino, insomma. E con lui ancora vivo l’automobile italiana, che ha goduto del privilegio di essere un’azienda dove di privato c’erano solo i dividendi mentre i finanziamenti e i debiti sono stati sempre pubblici, ha cominciato a battere in testa per effetto del trasferimento dei capitali dal core business ad altre attività: la scalata alla Montedison, l’acquisto della Case americana che ha vuotato le casseforti e il progressivo abbandono degli investimenti e della sperimentazione sull’automobile. Comunque, nelle dinamiche della famiglia più ricca, popolosa e avida d’Italia e nelle performance del management, sicuramente Gianni Agnelli ha rappresentato, prima che la malattia lo allontanasse dalle decisioni, il radicamento all’auto, alla produzione, in qualche misura a Torino. Dietro di lui spingevano altri interessi, altre prospettive povere di lavoro. Non a caso, ogni volta che, da ormai un anno, si diffondevano voci sul precipitare delle sue condizioni di salute, i titoli Fiat crescevano in borsa, nella cinica speranza degli azionisti di potersi finalmente liberare dall’auto e dalla materialità dei lavoratori in carne e ossa. Solo così si può spiegare l’onore che Torino ha tributato al suo re, anzi al suo padrone. Decine di migliaia di uomini e donne in coda per omaggiare le sue reliquie chiuse in una bara in cima alla pista di prova del Lingotto, luogo simbolico della produzione novecentesca di merci (e sfruttamento, cultura, coscienza, conflitto). I torinesi si sono accomiatati dall’avvocato, ma insieme dallo loro stessa storia, dall’automobile, da un secolo che è stato breve solo per chi non ha sputato sangue per andare avanti. Un rito, in qualche modo, però, monarchico, con la famiglia intorno alla bara per salutare e ringraziare uno per uno quelli che si vorrebbero sudditi ma sudditi non sono. Una famiglia che sa di non essere amata e tenta di ereditare il rispetto che solo Gianni aveva meritato all’occhio di chi ha passato ore in coda come i moscoviti davanti al mausoleo di Lenin sulla Piazza Rossa, in un’altra epoca. E ancora in coda davanti al Duomo, per l’ultimo saluto. I torinesi sono una razza speciale, figli di una città metà monarchica e metà ribelle, oggi piegata e subalterna e domani insorgente. Una città che ha un padrone solo e non ne tollera un altro, tanto più se arrogante, milanese, parvenu. Così i torinesi hanno fischiato Silvio Berlusconi che tentava di impossessarsi delle spoglie e dell’eredità dell’avvocato: «È venuto a rovinarci il funerale». Il funerale di un uomo che ha iniziato a lavorare dopo i quarant’anni, quando i suoi operai sono già segnati dalla fatica; che è stato snob più che borghese; che non si è imbrattato le mani con la gestione ed ha lasciato ad altri il lavoro sporco, quando nell’80 c’era da buttare fuori dalle catene di montaggio 24 mila dipendenti, o prima quando c’era da ridurre i contestatori al rango di terroristi, o dopo quando i fedeli di sempre, gli impiegati, quadri e capi erano diventati obsoleti, o con l’esplosione della crisi di oggi e le nuove liste di proscrizione. È stato un bravo re, l’avvocato? È stato un padrone buono? Dipende a chi lo chiedete. Sicuramente è stato il padrone di un’Italia che si è portato con sé sulla tomba.

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31.01.03

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