Olocausto

Oggi è il 27 gennaio e, internazionalmente, si è voluto che questa data fosse dedicata a commemorare le vittime dell’Olocausto.
«So che cosa dice la gente del Giorno della memoria: “Che noia, basta con questi ebrei”. Tra qualche anno sulla Shoah ci sarà solo una riga sui libri di storia poi neanche più quella». Così Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, nei giorni scorsi è tornata con arguzia a pizzicare l’opinione pubblica. Noi, che nel marzo del 2013 eravamo saliti sul “treno delle memoria”, partito da Chiasso in direzione Auschwitz, per ripercorrere anche fisicamente il viaggio dei deportati, riproponiamo la nostra testimonianza.

 

Non è un tour turistico, quello partito da Chiasso ad Auschwitz, ma la visita al più grande cimitero dell’umanità. In 700, fra cui 400 giovani, sul “Treno della memoria”, un progetto educativo per contribuire a non dimenticare.

Mi tormenta questo freddo. Mi paralizza, mi sfianca, non riesco a
muovermi. Devo reagire perché mi hanno detto che sono una testimone: occorre vedere, comprendere, essere lucidi e presenti, assorbire e metabolizzare e non rimanere immobili come statue di ghiaccio.

I presenti – è stato ripetuto – hanno una responsabilità morale e sociale: «Moltiplicatori di testimonianza» perché una follia tale non sia mai più ammessa.


Ma abbiate misericordia, sollevatemi dal penoso incarico di descrivere ciò che si è consumato in questo campo dove sto fissa, quasi senza respirare, mentre sono accerchiata da fantasmi dagli occhi scavati.

Che cosa si può aggiungere, che non sia già stato detto meglio da altri? No, ognuno può fornire un contributo: ne sono convinti gli organizzatori del viaggio della memoria perché se, come sosteneva Primo Levi, comprendere è impossibile, conoscere è necessario.

 

Il freddo è lancinante, falcidia voce e parole. Occorre proteggersi dall’aria gelida che trapassa, scuote e percuote. I fantasmi non capiscono e continuano a pungolare. «Lasciatemi, non vi accorgete che non sono coperta abbastanza?». No, non bastano i guanti, la sciarpa tirata su fin sopra il naso, la cuffia, due paia di calze infilate una sopra l’altra, la giacca da sci.

 

Me ne sto ferma e rigida nel campo di concentramento di Auschwitz.

In piedi sopra la terra resa melmosa da una neve in poltiglia, nella luce di un sole tarocco di primavera che non scalda, ma illumina rovine iscritte nel patrimonio dell’umanità, protette dall’Unesco.

Trattengo il respiro per proteggermi, mentre osservo il doppio filo spinato elettrificato contro cui più di uno si gettò in un abbraccio cercato con la morte per conservare un’idea decente di vita.

 

Perché sono venuta qui? Perché non sono rimasta a casa mia? Auschwitz è l’irreale dentro il reale: un posto di campagna baciato dalla bellezza della natura al cui interno l’orrore umano diede, al contrario, una delle sue peggiori rappresentazioni.

 

Siamo nel campo di concentramento più “famoso” al mondo: per visitarlo il percorso prevede il passaggio dai locali dove avvenivano le registrazioni, ci si doveva spogliare, divaricare le cosce per farsi depilare con violenza e tosare le teste come pecore. In questo luogo presso Cracovia, occupato dagli invasori tedeschi, agli ebrei furono infatti tolti identità, dignità, diritti, presente e futuro. Prosciugati i conti bancari, sfollati dalle case, buttati fuori da uffici e scuole, smembrate le famiglie: il popolo ebraico fu così violato nella propria intimità (i prigionieri messi in fila nudi), annullato (al posto del nome un numero inciso nella carne), depredato di ogni bene materiale e affettivo, di sé stesso.

 

I liceali della scolaresca milanese con cui viaggiamo, osservano con partecipazione le bacheche dietro alle quali sono accatastate le valigie con cui i prigionieri facevano il loro ingresso ad Auschwitz: i nomi impressi a grandi lettere con l’illusione di usarle per un ritorno che fu di pochi. E nelle valigie le fotografie portate con sé in Polonia, perché quando si ha poco spazio si salva ciò che è più prezioso per la propria storia. Sul muro sono appese le immagini felici che mostrano la vita delle vittime prima di essere rinchiuse nei lager: sorridenti ai fidanzamenti e ai matrimoni, spensierati durante i pic nic familiari, seri alla consegna di diplomi.

Tutto incenerito da una furia distruttrice: gli internati furono spolpati da vivi e da morti. Ammassi di pelle e ossa che hanno riempito le borse di molti. Non solo con il furto delle loro proprietà, ma anche col lavoro da schiavi a cui furono costretti nelle industrie dove il Terzo Reich li impiegava guadagnando su ognuno quattro marchi al giorno.

 

Non racconto nulla di nuovo: la storia è recente, dell’Europa dell'altro ieri. Perché allora mi torturate, se già sapete?

Mi tormenta questo freddo. Mi paralizza, mi sfianca, non riesco a muovermi. Via, posso andare?

Lasciamo Auschwitz, passando sotto la macabra inferriata “Arbeit macht frei”, e ci sentiamo liberati. Dura poco la sensazione di sollievo, una manciata di chilometri. perché stiamo arrivando a Birkenau.

«Quello che vedete è ciò che i nazisti non riuscirono a far saltare in aria, nel tentativo di cancellare le prove del genocidio. In questo lager vennero assassinate – è la cifra su cui concordano oggi gli storici – oltre un milione e centomila persone. La maggior parte ebrei, ma pure prigionieri russi, combattenti della Resistenza polacca e zingari» spiega la storica che ci accompagna, facendoci da “guida”.

Birkenau, “attivo” dal 1941, venne concepito come campo di sterminio e non di concentramento. Per questo motivo il più temibile, sempre che sia possibile fare una tale graduatoria. Insomma, qui si entrava per morire. È a Birkenau che furono perfezionate le camere a gas, “inventate”, buttando in una cella dello Zyklon B, l’acido cianidrico usato per la disinfestazione.

Esperimento “riuscito”: morte veloce per asfissia di un gran numero di internati contemporaneamente. I forni crematori, in funzione notte e giorno, completavano il disegno di annientamento. Si poteva così concretizzare la “soluzione finale” della questione ebraica.

 

Birkenau sembra non finire mai, si estende su una vastissima area.
Se ruoto lo sguardo a 360 gradi, posso vedere tutto. La torre della vedetta, la fila di baracche di legno. Stalle concepite per 52 cavalli, ma dove erano ammassate anche 600 persone nei periodi di pieno regime. Sono vicina alla Bahnrampe: la linea ferroviaria entra nel lager. Qui arrivavano i deportati, scendevano dai vagoni con ancora una vita e di colpo perdevano tutto in questo camposanto senza crismi.

 

È disperante solo pensarci. Intanto si trema dal freddo.

«Quanti gradi sono?» chiede qualcuno.

«Meno due» precisa la guida (e scusate  il termine).

«Non è possibile, si gela» è la replica corale.

«Meno due», non discute la nostra accompagnatrice, «ma nei mesi invernali si può scendere fino a 20, 30 gradi».
«Fa freddo» è la lamentosa litania del gruppo.

I fantasmi seminudi con gli occhi scavati si riavvicinano, tirandoci per i vestiti. E noi allora? Noi eravamo qui con addosso solo un pigiama e con scarpe di fortuna, quando non scalzi, mentre il mondo taceva.

 

Io, grazie a Dio (o a chi per esso), sono tornata a casa.

In redazione a Lugano me ne sto tranquilla davanti al mio computer. Aiuto, che cosa mi sta succedendo?

All’improvviso mi manca l’aria, mi sembra di soffocare.

Aiuto, non respiro! Mi alzo, corro alla finestra, la apro e sgomenta mi sporgo per respirare. Ancora più sgomenta, mi ascolto mentre a voce alta ripeto: «Io non c’entro». Già.

Pubblicato il 

27.01.23
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