È difficile trovare un inizio di cronaca dovendo riferire sugli avvenimenti israelo-palestinesi, che si succedono senza soluzione di continuità da decenni e decenni. L’ultima notizia, gravida di conseguenze, è giunta nella tarda mattinata di mercoledì mentre andavamo in macchina. Nella striscia di Gaza una bomba è esplosa al passaggio di una vettura dell’ambasciata americana a Tel Aviv. Almeno tre i morti, tutti americani, guardie del corpo, forse della Cia, addette alla protezione dei diplomatici. Ma riprendiamo la cronistoria con l’attentato di sabato quattro ottobre a un ristorante di Haifa, in Israele. Una donna kamikaze si fa esplodere, uccide una ventina di persone, stermina due intere famiglie. Il terribile attentato avviene nel trentennale della guerra del Kippur, l’unico conflitto che Israele rischiò veramente di perdere e dal quale si salvò grazie agli aiuti militari americani, inviati in tutta fretta, dopo che il governo di Tel Aviv aveva minacciato di ricorrere alle armi nucleari, armi che ufficialmente non esistono, ma di cui tutti conoscono l’esistenza. Proprio per questo trentennale, che coincideva con la festa dello Yom Kippur, il governo Sharon aveva ordinato il blocco dei territori palestinesi, e, nei giorni precedenti, aveva compiuto una serie di incursioni alla ricerca di “terroristi” nei campi palestinesi,compreso quello di Jenin, da cui la donna kamikaze proveniva.Blocco e incursioni rivelatisi inutili. La “terrorista” suicida non era una “sprovveduta fanatica”, ma un’avvocata. Sua particolarità essere sorella e cugina di due militanti della resistenza uccisi dagli israeliani. «Continueremo nelle esecuzioni mirate (che poi di mirato hanno ben poco, visto l’alto numero di vittime del tutto innocenti, ndr)» ha subito replicato l’Esecutivo israeliano. E così la collera e l’odio genereranno altri kamikaze, in una spirale di violenza senza fine. Collera e odio cresciuti oltre misura a Rafah, nella striscia di Gaza, dove, nei giorni scorsi, in ripetute incursioni i soldati israeliani, oltre a rendersi responsabili di una mattanza, con l’uccisione di almeno otto persone, fra le quali un adolescente di dodici anni e un ragazzino di otto, hanno demolito oltre cento abitazioni, lasciandoall’addiaccio più di 1’500 persone. Dovevano, hanno detto, distruggere due tunnel che sarebbero serviti al contrabbando di armi dall’Egitto, ma la vastità delle demolizioni ha sopravanzato di gran lunga le necessità della missione loro affidata. Nei giorni in cui l’avvocata kamikaze decideva di immolarsi con l’obiettivo di distruggere il più alto numero di vite “nemiche”, il governo Sharon rendeva noto di avere approvato il prolungamento del muro di separazione attorno a Gerusalemme, muro che si incunea per decine di chilometri in territorio palestinese, distrugge case, piantagioni, separa i coltivatori dalle loro terre, gli scolari dalle scuole, le massaie dai negozi, toglie l’acqua ai villaggi, ai campi, crea situazioni di insostenibilità per decine di migliaia di persone. L’attentato di Haifa, ha detto il Jihad islamico, è anche una risposta a tutto ciò (muro criticato dagli Usa che però all’Onu hanno bocciato una risoluzione di condanna). In questa desolazione, si è inserita nei giorni scorsi l’iniziativa promossa da qualche decina di politici e intellettuali israeliani e palestinesi, nota ora come “accordo svizzero”. Non va evidentemente enfatizzato per il semplice fatto di essere stato favorito sul piano logistico e finanziario dal dipartimento diretto da Micheline Calmy-rey. Sappiamo molto bene che, al momento attuale, la sua importanza è puramente simbolica e solo condizioni straordinarie, non prevedibili, potrebbero farne una base di discussione a livello di parlamenti ed esecutivi. Quest’accordo non è però stato sottoscritto da puri sognatori, senza i piedi per terra. A ricordare, riaffermare che israeliani e palestinesi possono vivere gli uni accanto agli altri senza tagliarsi quotidianamente la gola sono stati uomini come gli israeliani Yossi Belin, ex-ministro laburista, Avraham Burg, deputato ed ex-presidente del Parlamento, e gli scrittori Amos Oz e David Grossman, la cui poesia non è una fuga astratta nel mondo dei sogni. Ugualmente, per i palestinesi, hanno sottoscritto l’intesa (che dovrebbe essere formalizzata a Ginevra il 4 novembre, nell’ottavo anniversario dell’assassinio di Rabin) ex-ministri quali Abel Rabbo e Abdel Razek. I punti dell’accordo verterebbero su tutti i nodi finora irrisolti, dal ritiro degli israeliani dai territori palestinesi, alla rinuncia dei palestinesi a chiedere il ritorno dei profughi delle guerre passate nell’attuale territorio israeliano. Le reazioni da parte della destra israeliana sono state, com’era da aspettarsi, totalmente negative e addirittura irrisorie. Ma anche nel campo palestinese non sono mancate le critiche e i richiami a una resistenza senza patteggiamenti fin quando le truppe israeliane non si saranno ritirate. Troppo faciloni i Burg e i Belin, i Rabbo e i Razek? Può darsi, ma è anche vero che oramai i termini della questione sono fin troppo noti per richiedere ulteriori approfondimenti. Ora si tratta, da una parte e dall’altra, di prendere atto della realtà. Piuttosto i pericoli vengono anche da altre parti, da chi nutre sogni egemoni di più vasta portata e si avvale di ogni possibile appoggio per raggiungerli. Dopo l’attentato di Haifa, come noto, l’aviazione israeliana ha colpito una presunta base del Jihad palestinese in Siria. L’ultimo raid israeliano sulla Siria risaliva al 1982! Un colpo di testa di Sharon? Niente affatto, pochi giorni dopo la Camera dei deputati americana ha approvato un disegno di legge che prevede sanzioni contro la Siria «se continua ad appoggiare i terroristi e non ritira le proprie truppe dal Libano». Solo una coincidenza? Poco credibile visto che questo progetto giaceva nei cassetti da più di un anno ed è stato rispolverato dopo che Bush aveva difeso l’operato del governo di Tel Aviv. Un’improvvisata, pur se datata di un anno, anche quella americana? Non è da credersi. Attuali collaboratori di Bush già tre anni fa raccomandavano le sanzioni alla Siria, quale primo passo per costringere Damasco a ritirarsi dal Libano sul quale, scrivevano in un rapporto, devono tornare a comandare i cristiani. Obiettivo questo, affermavano, da conseguirsi, se necessario, anche con un’azione militare. E a proposito di azioni militari, va ricordato che nei giorni scorsi fonti israeliane hanno minacciato di colpire, preventivamente, le centrali nucleari dell’Iran, “stato terroristico” (Washington dixit) per eccellenza. Beh, questi i fatti. Le conclusioni al lettore!

Pubblicato il 

17.10.03

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