È caccia all’accattone in Ticino. Fermateli, bloccateli, fotografateli, postateli sui social network perché vanno scoraggiati. Già. Noi siamo andati a cercare due mendicanti per capire qualcosa di più delle loro esistenze. Quelle che, vi assicuriamo, nessuno di noi vorrebbe vivere. Senza una casa, un letto, con tre franchi in tasca, gli affetti lontani, con la paura di essere presi dalla polizia e la speranza di riscatto che, più passano i giorni, lascia il posto a un amaro disincanto. Li avevamo lasciati in stazione, li ritroviamo in una casa abbandonata fuori Lugano. Era lo scorso mese di gennaio, è l’aprile di oggi. Per Nicolaj ed Elena, la coppia rumena che sopravvive ai nostri margini, nulla è cambiato: continuano a fare gli accattoni. «Scusi, grazie, per favore, buona giornata. Io sono sempre gentile ma certa gente ti risponde lo stesso male. Ti insulta. Parolacce che fanno male quando già vivi una situazione di stress come questa. Mi viene la rabbia, vorrei gridare: “Ma io ho sempre lavorato! Come voi voglio una vita normale: un lavoro, mantenere i miei figli, stare con loro, avere un letto dove dormire. Ma la gente non capisce...». Non grida però Nicolaj, manda giù. Un’unica volta non ce l’ha fatta a trattenersi davanti a una giovane «ben vestita, con tanto oro addosso» che gli ha dato del “bastardo”. «Io sono italiana ma in Svizzera vengo a lavorare, mica come voi!». Nicolaj si è sentito salire il fumo agli occhi: «Ma siete voi italiani che rubate il lavoro ai ticinesi!». E giù un sacco e una sporta di insulti, tanto che «lei si è spaventata», mentre lui è se l’è filata via a gambe levate prima che la giovane potesse chiamare una pattuglia. Elena ha 42 anni e parla poco. A osservarla di fino si scopre un viso grazioso e occhi blu. Certo, è segnata bene, ma deve essere stata una bella ragazza: chissà come ne era innamorato Nicolaj, che ha sei anni in meno di lei. Chissà a quanti sogni di gioventù, pensiamo mentre assistiamo allo sfascio di un uomo e una donna. A Elena luccicano gli occhi. No, non brillano, si stanno commovendo. Da quanto tempo non vedi i tuoi figli? «Due anni» mormora e abbassa lo sguardo. I figli so’ pezzi ’e core anche se sei una disperata e in strada sconosciuti ti gridano «stronza, vai a lavorare!». Certo è che la gente – aveva ben ragione De André – «dà buoni consigli, se non può più dare cattivo esempio». È dura la vita da randagi: senzatetto, occupazione, soldi con la paura di essere braccati perché in un paese non tuo. Che si fa? «Non l’abbiamo scelta questa vita, è questo che le persone non capiscono. È un tormento vivere in strada e l’atmosfera in Ticino si sta facendo sempre più pesante. La colpa è di quegli inviti alla gente a fotografarci e a segnalarci alla polizia. C’è sempre più razzismo, nessuno che ti offre una chance. Viviamo con l’elemosima, ma chiediamo di lavorare». E tu che ne sai, Nicolaj, della campagna antiaccattonaggio? «Li vedo i giornali, vado in biblioteca e leggo tutto per tenermi informato. E poi tra di noi, quelli che stanno in strada, parliamo e certe cose le sappiamo. La gente sta diventando cattiva e anche la polizia ti tratta male. È colpa anche degli zingari, non sono sempre brave persone e rovinano la reputazione dei rumeni onesti». Gli svizzeri, i ticinesi, gli italiani, i rumeni e ora anche i rom. Oh Gesù, che confusione, cerchiamo di mettere ordine. Che differenza c’è tra voi e uno zingaro? Nicolaj mostra la carta d’identità: «Ecco, qui c’è scritto “nazionalità rumena”. Loro hanno un’altra scritta. Nazionalità rumena… Non mi ricordo bene, l’ho saputo anche io da poco». Forse sui documenti, suggerisce Elena, «c’è scritto rumeno rom». La differenza secondo i due che provengono da Bacau, nella regione di Moldavia, esiste e si nota: «Si riconoscono perché sono più scuri di noi, si vestono male e non vogliono lavorare. Rubano, suonano e chiedono l’elemosina di mestiere. Stanno a Como dove dormono nei campeggi ed entrano di giorno in Ticino per raccogliere soldi in qualunque modo. Sì, anche rubando. Hanno le auto, non come me che non ho neanche una bicicletta» continua Nicolaj. Insomma, una vocazione quella degli zingari a elemosinare e non una scelta forzata come voi. È questo che ci state dicendo? «Noi abbiamo sempre lavorato. Mia moglie ha fatto la badante per sette anni in Italia e anche io lavoravo come manovale con permesso di lavoro. Poi abbiamo conosciuto quell’italiano con una ditta a Chiasso, ci ha promesso un posto da lui e nel maggio 2013 siamo partiti da Lecce per il Ticino. Pensavamo di lavorare e guadagnare bene. Ma quello ci ha ingannati, non si è fatto trovare. Dopo una settimana in una pensione abbiamo finito i soldi e ci siamo ritrovati in strada. Ci ha rovinato la vita. Non sapevamo più cosa fare. In stazione a dormire e per mangiare un panino chiedere la moneta ai passanti: non l’avevamo mai fatto. È umiliante. Nessuno può immaginare che cosa si prova. La gente buona che si ferma a parlare con noi dice “non è possibile essere dei senzatetto in Svizzera, non succedono da noi queste cose”. Non capiscono...». Quanti soldi raccogliete con l’elemosina in una giornata? «Quando va bene 30 franchi, altre volte 6/7 franchi in due. Riusciamo a mandare in Romania circa 100 franchi al mese. Per raccogliere di più ci dividiamo: io da una parte, lei da un’altra, vicino alle casse degli autosili e alle uscite dei supermercati. Ma non sappiamo più dove andare perché c’è polizia dappertutto a fare i controlli». Ma che cosa pensate di fare? «Io ho telefonato in Italia dove lavoravo per chiedere di poter ritornare, di pagarmi il viaggio del treno che poi l’avrei restituito con la paga, ma c’è crisi anche lì. Il sud Italia è pieno di africani che arrivano a Lampedusa e non si trova più niente» aggiunge Elena. E quindi? «In Romania non possiamo tornare: il viaggio andata e ritorno per due costa 350 euro. E poi a casa non possiamo presentarci a mani vuote, almeno – ma minimo, minimo – 600/700 franchi li dobbiamo portare. Adesso ho 3 franchi in tasca... Io continuo a cercare un lavoro, anche in nero. Sono giovane e ho forza. Ho trovato poco tempo fa un lavoretto da un privato, facevo giardinaggio, ma è durato poco. Sono stato pagato bene: 140 franchi al giorno, più il mangiare ed era sempre carne. Ma è già finito. Il padrone mi ha detto che voleva assumermi ma che non si poteva per via del permesso di lavoro». Beh, per il mangiare c’è la mensa sociale “Bethlehem” a Pregassona... Lo sapete? «No, lì non andiamo più» risponde secco Nicolaj. Per quale motivo? «Perché non veniamo aiutati. Il pranzo va bene, ma poi? Siamo di nuovo sulla strada a fine giornata. Non ci ascoltano, nessuno ti ascolta. Siamo arrabbiati, lì non andiamo più neanche a fare la doccia. Si fanno distinzioni: i sudamericani vanno bene, tutti pensano che sono più poveri di noi. E invece hanno i furgoni e i computer. I rumeni invece sono i cattivi, ma noi siamo più disperati di loro. Io vi invito a venire nel mio paese per capire: se hai un lavoro, non guadagni 200 euro e con questa cifra non si campa». E dove vi lavate che nella casa abbandonata non c’è acqua? «Ci laviamo, ci laviamo» sorridono, guardandosi con un gesto d’intesa. In effetti, senza voler fare le pulci alle persone, puliti son puliti. Incuriositi, insistiamo per sapere come si arrangiano con la promessa di non scriverlo sul giornale e manterremo la parola: diciamo solo che la rivelazione è un momento di autentico spasso nella drammaticità del racconto. Un attimo di distensione. Quello che per noi è un mendicante, è anche padre di quattro figli: apre lo zainetto ed estrae una mappetta di plastica per mostrarci le foto di famiglia. Bimbi sorridenti, al parco giochi, con i parenti, tirati a festa per essere immortalati: un quadretto familiare simile a tanti. «Come sono belli! Complimenti!». Nicolaj ed Elena si inorgogliscono: sono il loro unico bene, che tante volte il sottoproletariato non ha neppure questo. Noi dobbiamo scappare. “Ciao, ciao, state bene, buona giornata, buona fortuna, grazie, prego”. L’ultima domanda la pone Nicolaj: «E se la polizia mi prende e mi picchia? Lo so che non succede, ma se succede, posso chiamarvi?». Rimaniamo di pietra giusto un attimo, prima di rassicurarli: «Potete sempre chiamarci. Ma no, non succederà mai». No, diamine, siamo un paese civile, mica dei barboni noi.
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