“: ) Xke nn ci vedi♥ in disco? TVTTTBBB!!!” L’abbreviazione da telefono cellulare dilaga. Parole monche, pittogrammi, faccine felici e tristi invadono prepotentemente la lingua scritta dai giovani e sempre più spesso anche dai meno giovani. Gli insegnanti strabuzzano gli occhi ed inorridiscono incontrando negli appunti e finanche nei compiti in classe, quel “Xke” usurpatore, proditoriamente sostituitosi all’ortodosso “perché”. Uno sguardo disincantato alla storia dello scrivere rivela che in realtà l’abbreviazione e il pittogramma esistono da quando esiste la scrittura. Anzi, la scrittura stessa non è altro se non il compimento di un lungo processo di semplificazione, stilizzazione e normalizzazione del pittogramma. Provare per credere: prendete una A, rovesciatela e vi troverete ad osservare il disegno stilizzato del muso di un toro. In fenicio “alph” indicava appunto il toro ed è dalla lettera fenicia che deriva la nostra A, passata attraverso la cultura greca e quella latina. Ma l’abbreviazione è anche questione di soldi, come ben sanno gli utenti del telefonino. È soprattutto per risparmiare sui costi telefonici che si cerca di contenere il più possibile la prolissità dei messaggi, oltre che per risparmiare fatica nella lotta con le scomode tastierine microscopizzate dei cellulari. E anche questa non è affatto una novità. Nel medioevo scrivevano in pochi e la scrittura era molto costosa. Per cominciare fino al XIV secolo si scriveva quasi esclusivamente su pergamena. La pergamena è la pelle di un animale, in genere capra, pecora o vitello, ripulita dalla carne, rasata dal pelo e trattata in modo che possa ricevere e trattenere senza sbavature l’inchiostro. Il costo di uno scritto è quindi proporzionale alla sua estensione. Un libro aveva, nell’età di mezzo, un costo materiale altissimo, corrispondente al valore di un gregge di pecore o di una mandria di vitelli. Non era certo cosa per poveri. La parsimonia si imponeva. Solo i testi di grandissimo prestigio e di gran lusso erano scritti per esteso. Nella stragrande maggioranza dei casi invece la scrittura pullulava di abbreviazioni. Ancora più esasperato era il ricorso alle contrazioni e all’abbreviazione di formule ricorrenti negli atti notarili il cui prezzo, oltre a quello del supporto per la scrittura, dipendeva anche dalla quantità di lavoro profusa dal notaio. Leggere un atto notarile stilato nel Quattrocento è un’impresa, non tanto per la grafia dei notai, per altro spesso ostica, quanto per la massa di contrazioni, segni di abbreviazione e riferimenti alle formule notarili correnti. Abbreviatissimi erano anche i libri di testo degli studenti. Gli scolari dovevano infatti copiare a mano i testi che avrebbero poi studiato e c’è da credere che andassero il più possibile al risparmio. Anche se la carta aveva un prezzo di molto inferiore a quello della pergamena non era certo regalata. Tutto questo risulta tranquillizzante e scagiona il cellulare dalle pesanti accuse che gli vengono mosse: le abbreviazioni medievali non hanno ucciso la letteratura. Anzi, hanno in buona parte contribuito a salvarla e a tramandarla alle generazioni successive. Credo proprio che neppure il telefonino con le sue faccine e le sue “k” possa riuscire nella titanica impresa di scardinare l’alfabetizzazione delle nuove generazioni. Il problema c’è. Il disadattamento alla scrittura si diffonde in modo epidemico. Ma non è certo colpa del telefonino.

Pubblicato il 

02.12.05

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