A senso unico: l'informazione negli Usa dopo l'11 settembre

Siamo alle solite. Quanto scoppia una crisi o peggio ancora una guerra ecco rispuntare per la stampa il fantasma della censura o dell’autocensura. Nei giorni e nelle settimane dopo gli attacchi alle torri gemelle di New York, giornali, radio e televisione si sono automaticamente chiusi a cerchio attorno al presidente. Criticare è diventata un’impresa pericolosa. Ne sa qualcosa il 61enne Dan Guthrie. Per anni ha fatto il commentatore per un quotidiano dell’Oregon. Il 15 di settembre ha osato chiedere al presidente come mai l’11 di settembre si era «imboscato» lontano da Washington. Una domanda troppo indiscreta che gli è subito costata il posto di lavoro. Lo stesso è successo ad un suo collega nel Texas. La censura si è abbattuta anche sui caricaturisti del «Newsday» e del «Daily News», che da mesi erano soliti prendere di mira il presidente e le sue innumerevoli gaffes. Non solo non si può scalfire l’immagine del presidente, ma è diventato difficile, se non impossibile, anche criticare la politica estera americana. Ne ha fatto l’esperienza Robert Jensen, un professore dell’Università del Texas che ha ricevuto oltre 3000 e-mail (la metà a favore e la metà contro) in risposta ad una sua lettera apparsa sullo «Houston Chronicle» incentrata sugli errori commessi dagli Stati Uniti. Per «frenare» la valanga di lettere di protesta che arrivavano in redazione è dovuto intervenire lo stesso rettore dell’ateneo, che ha di fatto criticato l’insegnante e la sua analisi della situazione. In sintesi gli ha dato dell’incompetente. Lo stesso è successo in Canada a Sunera Thobani, una professoressa di studi femminili. Durante una conferenza a Ottawa, ha ricordato che anche le aggressioni americane hanno provocato distruzioni, vittime e sofferenze. «Proviamo pena per queste vittime ?» si è chiesta l’oratrice, che è stata accusata di incitare all’odio contro gli americani. Pressioni continue Le pressioni più forti sono comunque arrivate allo scoppio delle ostilità. La Casa Bianca, per voce di Condoleezza Rice, la consigliera per la sicurezza di Bush, ha invitato i media a non mettere in onda integralmente, ma solo sotto forma di notizie, i messaggi di Osama Bin Laden e dei suoi portavoce, perché potrebbero contenere messaggi in codice. I media americani hanno subito risposto «presente», mentre i media europei hanno ritenuto più importante continuare a far vedere quei filmati ascoltati da milioni di arabi. Dal canto suo il presidente Bush ha deciso di restringere a pochi parlamentari l’accesso a documenti confidenziali per evitare fughe di notizie. In questo caso sono stati i parlamentari a rispondere «presente» e la stampa ha incassato il colpo senza battere ciglio. Al Pentagono anche Rumsfeld, il responsabile della difesa, ha messo subito in chiaro che non avrebbe rivelato fatti che potrebbero danneggiare le operazioni in corso o le persone coinvolte. E ha avvisato i giornalisti: se qualcuno «dovesse parlare di queste cose con voi infrange la legge federale e rischia di finire in prigione». Anche dietro le quinte i collaboratori di Bush hanno martellato le redazioni con critiche e richieste di non pubblicare certe informazioni, perché potrebbero favorire il nemico. «Dovete essere molto prudenti. Fate attenzione a non mettere in onda informazioni che possono danneggiare i cittadini o l’esercito» avvisava Bill Wheatley, un dirigente dell’Nbc, in una circolare indirizzata alle redazioni. I media americani non sono nuovi a queste esperienze. In queste settimane è ritornata alla memoria l’esperienza del Vietnam. Allora la stampa aveva libero accesso alle fonti. I reportage raccontavano storie terribili. Quando gli americani persero la guerra, la responsabilità di quella sconfitta fu in parte addossata alla stampa. Nelle guerre successive le cose cambiarono. A Grenada nel 1983 i media furono di fatto tagliati fuori. In seguito, il Pentagono permise ad un gruppo ristretto di giornalisti di accedere ai luoghi di combattimento. La strategia messa in atto dieci anni fa durante la famosa guerra del Golfo, si dimostrò lacunosa. Per Jaqueline Sharkey, professore di giornalismo all’università dell’Arizona, in quella occasione è stato violato il primo emendamento che garantisce la libertà di stampa e il diritto dell’opinione pubblica ad un’informazione indipendente. A dieci anni di distanza le cose non sembrano andare diversamente. Le informazioni che arrivano dall’Afghanistan sono filtrate dal Pentagono, che minimizza i cosiddetti «danni collaterali», vale a dire le vittime civili e innocenti che, secondo i Taliban, sono decine o centinaia per ogni giorno di bombardamento. La posizione dei media potrebbe un giorno cambiare se a morire al fronte fossero di nuovo soldati americani. Gli americani prigionieri della paura Non è il panico, ma certo è un’aria di tensione quella che si respira in questi giorni negli Stati Uniti. Il carbonchio, per ora, ha fatto una vittima, ma ha seminato molta paura nelle redazioni, negli uffici postali e negli aeroporti. La gente già comincia a chiedersi cosa succederà domani. La maggioranza degli americani è scettica sulle capacità del sistema sanitario di affrontare questa nuova sfida. «Stiamo imparando in fretta» assicura il sindaco di New York Rudolf Giuliani, a chi chiede spiegazioni su ritardi e lacune. È innegabile che la macchina sanitaria si è messa in moto con lentezza e non in modo omogeneo, rivelando come manchino precisi piani d’intervento e soprattutto un centro di coordinamento nazionale. Non ci sono numeri verdi e allora per tranquillizzarsi la gente bussa alle porte delle redazioni e consulta le pagine web della posta o della Croce rossa o intasa il 911, il numero del pronto intervento. Le autorità invitano ad essere prudenti, a non annusare polverine strane, a lavarsi le mani e a chiamare subito il pronto intervento quando il postino porta un pacco o una busta sospetti. Tutti assicurano in coro che la malattia non è contagiosa ed è curabile se individuata per tempo. Ma intanto le televisioni mettono in onda immagini di edifici messi in quarantena con dentro tecnici superprotetti da tute e maschere antigas. Resta poi il fatto che l’«epidemia» si espande e può colpire chiunque, compresi i bambini di pochi mesi di vita. Se l’obiettivo era quello di fare paura, allora chi ha inviato i pacchetti contaminati ha sicuramente fatto centro. Ormai nelle città gli allarmi si susseguono. Spesso sono infondati. Le sirene dei pompieri, delle ambulanze o della polizia echeggiano più che mai nelle vie del centro. Ogni avvistamento di sostanze sospette fa scattare i cordoni sanitari. La gente quando può, ma soprattutto il fine settimana, sta alla larga dalle città, da musei, edifici pubblici, ristoranti e alberghi anche se i prezzi sono stracciati e i mezzi pubblici di trasporto gratis, come è successo domenica scorsa a Washington. Si riscoprono la campagna e le gite fuori porta, magari per andare a prendere la tradizionale zucca di Halloween. In questo clima di insicurezza molte persone cominciano a prendere precauzioni. Per esperienza sanno che bisogna fare scorta di acqua e di generi di prima necessità. Non a caso subito dopo l’11 di settembre nei supermercati gli scaffali dell’acqua si erano vuotati nel giro di poche ore. Molte farmacie hanno esaurito le scorte di antibiotici contro il carbonchio, ma la Bayer sta macinando pastiglie a tutta forza. C’è chi comincia a prepararsi all’eventualità di una evacuazione. In famiglia si fissano punti di incontro in città e magari anche in un’altra località. C’è chi mette nell’auto una valigia piena del minimo indispensabile per non lasciarsi sorprendere impreparato. C’è chi studia piani di evacuazione alternativi e tiene pronta nel cassetto una pila e una maschera anti-gas. Anche i bambini e i ragazzi respirano l’aria di tensione. In questi giorni molte scuole hanno organizzato esercitazioni. Ai più piccoli, per non spaventarli, le maestre hanno parlato di simulare un’evacuazione in caso di incendio, ma i più grandi sono stati istruiti su come comportarsi in caso di attacco.

Pubblicato il

19.10.2001 04:30
Anna Luisa Ferro Mäder