A difesa dell'industria

È un paese in declino, l’Italia, che fino a un paio d’anni fa si vantava di appartenere al ristretto consesso delle nazioni che contano: la quinta potenza mondiale. Addirittura, per consolidare sul piano delle relazioni internazionali tale primato e mostrare la sua fedeltà atlantica e americana, il governo di centrosinistra guidato da Massimo D’Alema era arrivato a partecipare attivamente alla guerra contro la Jugoslavia. E per difendersi dalla concorrenza industriale dei paesi governati dall’economia neoliberista, l’Italia di centrosinistra si era accodata al pensiero dominante che pretende sempre più flessibilità della manodopera, e tratta il lavoro – e i lavoratori – come una variabile dipendente del capitale e del profitto, e la sua quantità e la qualità determinate esclusivamente dalle leggi del dio mercato. Con la vittoria di Berlusconi, la strada aperta da D’Alema e soci si è trasformata in autostrada, la flessibilità è diventata precarietà di massa, mentre le tutele garantite da un sistema legislativo figlio delle grandi lotte degli anni ’60 e ’70 stanno saltando una dopo l’altra. Ma il risultato è stato l’opposto di quello sperato: in Italia la crisi industriale è esplosa, al punto di poter parlare di de-industrializzazione. A breve termine sono 300 mila i posti di lavoro a rischio nell’industria metalmeccanica, nella chimica come nella farmaceutica, nell’informatica come nell’elettronica, nell’acciaio e persino in quel tessile e calzaturiero che avevano consentito il miracolo del made in Italy, il “piccolo è bello” delle filiere del Nordest che via via hanno scoperto le meraviglie della globalizzazione nei Balcani, a Timisoara, dove tutto è scontato, dal costo del lavoro ai diritti. La punta dell’iceberg della crisi si chiama Fiat, l’ultima grande industria italiana che da mesi sta deperendo. Tra Fiat Auto e indotto, sono già alcune decine di migliaia i lavoratori espulsi dalla produzione, mentre si avvicina la chiusura di stabilimenti storici come Arese e Termini Imerese e Mirafiori rinsecchisce. Non c’è un progetto di salvataggio e di rilancio, ma solo un piano finanziario per rientrare da un indebitamento pauroso. Le banche premono per recuperare i loro (?) soldi, la General Motors aspetta al varco, pronta per portarsi a casa per quattro soldi l’ex gioiello automobilistico italiano. Il governo Berlusconi continua a trasferire soldi dalle casse dello Stato agli eredi avidi e litigiosi dell’avvocato Agnelli, senza vincoli sociali, industriali, occupazionali. Al Cavaliere di Arcore interessano i bocconcini privilegiati dello spezzatino Fiat, innanzitutto il Corriere della Sera. I sindacati sono divisi, Fim-Cisl e Uilm ormai subalterne all’azienda in dismissione e disponibili a cogestirne la fine, sulla pelle dei lavoratori. La Fiom-Cgil continua a combattere da sola per salvare decine di migliaia di posti di lavoro e, al tempo stesso, un patrimonio culturale, storico, economico che appartiene all’intero Paese. È per porre un argine alla de-industrializzazione che la Cgil ha indetto – da sola, Cisl e Uil hanno dato forfait – uno sciopero generale di 4 ore (che i metalmeccanici della Fiom hanno portato a 8) dell’industria e dell’artigianato per il 21 febbraio. Alla lotta contro il declino si è aggiunto un altro punto, altrettanto importante: la battaglia contro la distruzione per via legislativa dei diritti dei lavoratori, deregolando la prestazione lavorativa con la formalizzazione del nuovo caporalato industriale e delle forme più indecenti di terziarizzazioni, con la crescita di contratti atipici. Un pezzo alla volta, l’intero architrave del Patto per l’Italia, firmato con il governo dalle associazioni padronali e da Cisl e Uil si sta trasformando in nuove leggi che cancellano gli ultimi residui di welfare all’italiana. La prossima vittima sarà l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, quello che impone il reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato. La minoranza della Cgil, insieme alla Fiom, a Rifondazione comunista e Verdi e una parte dei Ds, ha promosso un referendum che va in direzione opposta alla strada imboccata dal governo e chiede l’estensione dell’articolo 18 in tutti i posti di lavoro, anche nelle aziende con meno di 16 dipendenti. La maggioranza della Cgil è stata spiazzata da questa iniziativa che si richiama alla grande mobilitazione dello scorso anno promossa dall’allora segretario Sergio Cofferati, ma alla fine non potrà non sostenere il Sì al quesito referendario, unico strumento – una legge estensiva dei diritti è impensabile con i rapporti di forza parlamentari dati – per fermare le orde neoliberiste. Dalla Fiom un no al lavoro in affitto Provate a chiedere in giro: cos’è oggi la Fiom? Scoprirete che il maggior sindacato industriale italiano è percepito nei modi più diversi, a seconda dell’interlocutore a cui vi rivolgete. Per esempio, dalle parti della sinistra ulivista non pochi accusano la Fiom di minoritarismo: troppo radicale, troppo autonoma dai padroni, dall’opposizione politica, dalla stessa Cgil. Di conseguenza, un sindacato isolato. La Fiom è sola? Provate a dirlo ai lavoratori metalmeccanici, vi risponderanno che siete ubriachi. Vi mostreranno i dati degli scioperi e delle manifestazioni indette dalla sola Fiom. Vi racconteranno come mai in tutte le elezioni per i rinnovi delle Rsu la Fiom cresce e rosicchia voti a Fim e Uilm. Vi diranno che il loro è l’unico sindacato che ha scelto la strada della democrazia, sottoponendo al giudizio di tutti i lavoratori la piattaforma contrattuale e raccogliendo un consenso inedito, maggioritario. Vi diranno che la loro è l’unica piattaforma che ponga un argine alla precarizzazione dilagante. E così finirete di parlare di solitudine, estremismo e settarismo. Anche dai giovani no global potete ascoltare parole di solidarietà verso i militanti della Fiom con cui hanno marciato insieme a Genova, con cui hanno discusso a Porto Alegre, che hanno aiutato nella dura battaglia alla Fiat, andando a occupare la pinacoteca Gianni e Marella Agnelli al Lingotto. E i giovani e meno giovani arcobaleni di pace potrebbero rinfrescarvi la memoria, ricordando la presenza della Fiom nelle marce contro altre guerre, quelle combattute dal centrosinistra e non osteggiate dalla Cgil, ai tempi del Kosovo quando le bombe erano intelligenti e le guerre umanitarie. Gianni Rinaldini è un uomo mite, uno a cui non piace alzare la voce. Ma è quanto mai determinato. Con il segretario generale della Fiom abbiamo parlato di contratti, di Fiat, di articolo 18. Ma soprattutto abbiamo parlato di Fiom. Gianni Rinaldini, voi della Fiom siete nel mirino dei padroni. Federmeccanica è arrivata a minacciare di rappresaglia chiunque decida di aderire allo sciopero della Cgil del 21. Dicono che in fase di rinnovo contrattuale deve valere la moratoria degli scioperi. La provocazione di Federmeccanica – che non si regge in piedi, in quanto noi si sciopera contro il declino e le leggi del governo che hanno trasformato il mercato del lavoro in un supermercato a prezzi stracciati, non per il contratto – svela l’approccio degli imprenditori alla trattativa. Nei confronti della piattaforma contrattuale hanno avuto un atteggiamento aggressivo fin dall’inizio, tanto che ancora non ci è stata data un risposta nel merito, il confronto non è mai iniziato. Quel che non digeriscono è che al centro abbiamo messo la lotta alla precarizzazione, disegnando un percorso che dopo un definito periodo di tempo trasformi i contratti atipici in assunzioni a tempo indeterminato. In sostanza, tentate di ribaltare un processo in atto anche a livello legislativo. La legge delega del lavoro, approvata dal parlamento accelera e istituzionalizza la distruzione di diritti, al punto che Confindustria e Federmeccanica hanno parlato di “svolta epocale” e della “più importante riforma degli ultimi quarant’anni”. E ora tocca alla delega 848 bis, il grimaldello per scassare l’articolo 18 dello Statuto. Siamo alla precarizzazione di massa e alla modifica del ruolo delle rappresentanze sociali. Non è difficile capire la radicalità e la pericolosità del cambiamento delle funzioni dei sindacati. La piattaforma della Fiom si muove in una direzione opposta e tenta di contrastare il processo in atto. Si tratta di una battaglia che assume un carattere generale perché va ben oltre la categoria dei metalmeccanici. Se, al contrario, dentro il nostro contratto dovesse passare una logica coerente con la deregulation legislativa sarebbe scritto il futuro dell’istituto stesso del contratto nazionale: verrebbe cancellato e alla precarizzazione di massa non ci sarebbero più argini. La direzione di marcia che vogliamo invertire è quella che ci porterebbe diritti filati verso il modello americano del lavoro in affitto, con una caduta di rappresentanza sociale e sindacale. Verso sindacati non più fondati sulla contrattazione e la rappresentanza dei lavoratori, bensì trasformati in strutture di servizio e di mercato. Come succede negli Usa, appunto, dove non esiste il contratto nazionale. È difficile pensare che Fim e Uilm non abbiano compreso la posta in gioco, evidentemente il loro giudizio sui processi in atto è radicalmente diverso. Come giudichi l’uscita del segretario della Fim, Giorgio Caprioli, che commentando l’attacco di Federmeccanica al diritto di sciopero si è detto tranquillo: non mi tocca, la minaccia non riguarda i lavoratori della Fim ma solo quelli della Fiom. La giudico una reazione incredibile, preoccupante perché porta la logica del “sindacato degli iscritti” alle estreme conseguenze, al sindacato corporativo, al disprezzo nei confronti dei lavoratori. Tornando alla Federmeccanica, io escludo che una politica aggressiva impostata sui ricatti e le minacce, possa sortire gli effetti desiderati. Per un fatto molto semplice: ricatti e minacce non si possono accettare. La vostra piattaforma è l’unica che si ponga l’obiettivo di invertire la tendenza alla precarizzazione del lavoro. Se la Cgil fosse fino in fondo solidale con la Fiom, si preoccuperebbe di non lasciarvi soli in una battaglia che, come dici tu, è generale. Sugli attacchi della Federmeccanica la Cgil ha espresso un giudizio molto netto e convinto. È vero però che le piattaforme delle altre categorie hanno un’accentuazione diversa sui temi della flessibilità. Ma la fase è cambiata con le leggi delega, e quando arriveranno i decreti attuativi della 848 e 848 bis, tutti saranno costretti a fare i conti con le novità, cioè con la precarizzazione di massa. Lo stesso dicasi per la nuova normativa sui contratti a tempo determinato, la cui incidenza può arrivare nelle fabbriche fino al 60 per cento. Modifica il ruolo dei sindacati, scompare la contrattazione, persino l’informazione vi negano. È come sempre emblematico e rivelatore di un processo più generale il caso della crisi Fiat. Esattamente, nella gestione della crisi Fiat è escluso ogni ruolo dei sindacati. Siamo al rapporto diretto padroni-governo. Non si è riusciti ad aprire una vera trattativa con la multinazionale torinese che punta a trattare stabilimento per stabilimento, frantumando il confronto nel territorio dove sceglie il rapporto con gli enti locali rispetto a quello con noi. Noi ripetiamo dall’inizio un concetto incontestabile: quello della Fiat è un piano finanziario e non industriale, per di più, quel piano non contiene le risorse per salvare e rilanciare l’auto. Neppure ci rispondono, pretendono di decidere da soli sul futuro di decine di migliaia di lavoratori. Eppure la sinistra sembra disinteressata, distratta. C’è una totale assenza di iniziativa politica, è vero. Come se il futuro della Fiat fosse affare privato della famiglia Agnelli. Il progressivo abbandono delle tematiche del lavoro da parte dell’opposizione di centrosinistra spiega l’atteggiamento infastidito quando non ostile verso il referendum per l’estensione dell’articolo 18, di cui la Fiom è co-promotrice. Al referendum si arriva nel contesto detto, dentro i processi di precarizzazione di massa. A giorni andrà in discussione la delega che riduce la copertura dell’articolo 18: se passerà, neppure i dipendenti di aziende che occupano più di 15 lavoratori saranno garantiti rispetto al licenziamento ingiusto. In questo momento, l’unico modo per fermare la macchina liberista che viaggia a tutto gas contro i diritti dei lavoratori è la vittoria del Sì al referendum. La vittoria del Sì è uno strumento per difendere i diritti acquisiti e per estenderli a tutti. L’aver promosso il referendum è stato l’opposto di una fuga in avanti. Dopo una prima reazione nervosa alla decisione di ammissibilità del quesito, ora il confronto a sinistra e nella Cgil si va rasserenando. Il referendum chiede di estendere ai dipendenti di aziende con meno di 16 dipendenti il diritto a essere reintegrati nel caso in cui il giudice dichiarasse ingiusto il licenziamento. Come si fa a definire questo un elemento di divisione tra i lavoratori? In un referendum si è costretti a misurarsi sul merito del quesito posto. E allora voglio vederli i lavoratori, voglio vederli i militanti della Cgil o della sinistra a dire che no, loro non vogliono estendere un diritto ai meno garantiti. Restiamo al quesito, e rispondiamo se condividiamo o no il merito della proposta. Io credo che questo referendum si possa vincere. Anche in occasione del referendum sul divorzio le reazioni a sinistra furono di preoccupazione. Allora si sventolava il rischio di frattura con i cattolici, oggi si sventola il rischio di rompere con gli artigiani. Il referendum sul divorzio l’abbiamo vinto, ora cerchiamo di vincere quello sull’estensione dell’articolo 18.

Pubblicato il

21.02.2003 04:00
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