A Berna contro la guerra

Quella di domani, con appuntamento alle 13.30 alla Schützenmatte di Berna, sarà con ogni probabilità una delle più imponenti manifestazioni di piazza degli ultimi anni in Svizzera. Mai infatti in passato si è vista una coagulazione di forze così ampia attorno ad un appello pacifista come nel caso del “No” all’imminente guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq. Al punto che anche le più compassate organizzazioni d’aiuto umanitario sono scese direttamente in campo per denunciare il rischio di una catastrofe umanitaria senza precedenti, e chiamano alla mobilitazione di massa. E fra le oltre cento organizzazioni che si riconoscono nell’appello contro la guerra all’Iraq (cfr. riquadrato) e che si sono impegnate nella campagna di sensibilizzazione e nell’organizzazione della manifestazione di domani vi sono anche i partiti della sinistra (a cominciare dal Partito socialista svizzero e dal Partito socialista ticinese) e i sindacati (compresa l’Unione sindacale svizzera), oltre naturalmente alle organizzazioni pacifiste e antimilitariste. Insomma, anche la Svizzera pacifista si impegna direttamente in questa campagna contro la guerra e vuole partecipare al coro europeo di condanna che domani si leverà verso gli Stati Uniti. «Questa è una guerra che ci tocca tutti, in primo luogo dal punto di vista emotivo in quanto sarà una catastrofe umanitaria», dice ad area la vicepresidente del Sindacato edilizia e industria (Sei) Rita Schiavi. Per il Sei non ci sono dubbi: il regime di Saddam Hussein è pericoloso, e lo provano la guerra all’Iran (per altro condotta con il sostegno dell’Occidente), l’uso di armi chimiche contro la popolazione curda e l’invasione del Kuwait, oltre alle costanti violazioni del diritto internazionale e delle risoluzioni dell’Onu. Non solo: Hussein ha fatto piazza pulita della società civile, reprimendo in particolare i sindacati indipendenti, e questo renderà molto difficile una transizione verso la democrazia. Ma, rileva il Sei, non è con una guerra o con sanzioni che colpiscono soltanto i civili che si ottiene l’auspicato cambiamento di regime, come dimostrano gli ultimi 12 anni. «È quindi giusto e doveroso che un sindacato si mobiliti contro questa guerra all’Iraq. Certo», spiega Schiavi, «i costi di questa guerra saranno sopportati in primo luogo dalla popolazione civile irachena. Ma ne faranno le spese anche le lavoratrici e i lavoratori in Europa, in Giappone, in America latina e negli stessi Stati Uniti. Perché i soldi investiti nella guerra mancheranno nei budget della spesa sociale e della lotta alla povertà. Già adesso negli Usa si tagliano interi programmi sociali. E con meccanismi molto abili gli Usa recupereranno parte dei costi di questa guerra sfruttando ancor più i paesi del Sud e impossessandosi di risorse appartenenti a Giappone ed Europa». Ma c’è un altro motivo per opporsi alla guerra prossima ventura che sta molto a cuore al sindacato: «è importante mobilitarsi a difesa dei diritti democratici», spiega Schiavi, «che, come l’esperienza dimostra, vengono sempre sospesi o soffocati quando c’è una guerra. Lo si verifica attualmente negli Usa, ma qualche accenno ad una nuova deriva verso uno stato poliziesco lo si intravede anche in Svizzera». Al di là di ciò, il sindacato si riconosce comunque pienamente nello slogan “non versiamo sangue per il petrolio”, suppergiù uguale a quello di 12 anni fa, quando la guerra contro l’Iraq fu ufficialmente scatenata per liberare il Kuwait dalle truppe di Saddam Hussein. Ma rispetto ad allora c’è una differenza fondamentale: «oggi non c’è nessuna minaccia reale da parte dell’Iraq: questa guerra è volta esclusivamente al controllo del petrolio. Il problema», aggiunge Schiavi, «è che ovunque gli Stati Uniti abbiano voluto controllare le risorse prodotte da un paese, vi hanno imposto un regime autoritario. La riprova l’abbiamo con ciò che sta accadendo in questi mesi in Venezuela. Non c’è dubbio che l’Iraq ha bisogno di passare ad un sistema democratico, e che questo sarebbe anche nel nostro interesse: ma non è con le bombe che ci si arriva», commenta Schiavi. Per il Partito socialista svizzero, secondo le parole della presidente Christiane Brunner, «scatenare una guerra contro l’Iraq sarebbe un errore politico gravissimo», e questo perché, malgrado le promesse di 12 anni fa, la situazione nella regione non è stata per nulla appianata, a cominciare dal conflitto israelo-palestinese, par non parlare dei regimi autoritari (come quello saudita) che dalla fine della guerra di liberazione del Kuwait hanno sempre più salde in mano le redini del potere. E Brunner, a nome del Pss, chiede dal Consiglio federale, in vista di questa guerra, di assumere una posizione chiara: «l’applicazione stretta del principio di neutralità nel caso di un attacco senza mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite è un minimo assoluto. Ma non ci si può limitare a questo, di fronte a quella che sarebbe una chiara violazione del diritto internazionale: il Consiglio federale dovrebbe sospendere ogni cooperazione di natura militare con le parti in conflitto. E se l’ipotesi è quella di un attacco su mandato dell’Onu, il Consiglio federale deve adoperarsi affinché il Consiglio di sicurezza non autorizzi in nessun caso l’attacco». L’appello di Brunner è quindi rivolto a tutti affinché quella di domani sia una grande manifestazione decisa e risoluta, ma nonviolenta. Un appello particolare però la presidente del Pss lo rivolge alle donne, affinché giungano in massa a Berna: «la guerra moderna colpisce con particolare crudeltà in primo luogo le popolazioni civili: le donne ne sono quindi spesso le prime vittime oltre che le più numerose. In Iraq», prosegue Brunner, «già oggi le donne soffrono sotto il peso di grosse privazioni. La guerra raddoppierebbe soltanto le loro sofferenze. Come donne abbiamo quindi una responsabilità particolare: manifesteremo anche per solidarietà con le donne che in Iraq e in tutto il Medio oriente aspirano a più democrazia e sviluppo sociale». Per questo, secondo la presidente del Pss, il Consiglio federale nei suoi programmi di aiuto allo sviluppo deve tenere conto in modo particolare della situazione delle donne in Medio oriente: «perché sono loro che pagano da troppo tempo il più alto tributo all’ingiustizia, al cattivo sviluppo e all’assenza di democrazia».

Pubblicato il

14.02.2003 01:30
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