Il 7 ottobre di un anno fa il conflitto israelo-palestinese è tornato a riempire le cronache dopo anni in cui la questione palestinese sembrava essere passata in secondo piano. Purtroppo questo è avvenuto in seguito al grave attentato che Hamas, il partito che governa la Striscia di Gaza, ha compiuto penetrando in territorio israeliano nel 50esimo anniversario della guerra dello Yom Kippur, iniziata proprio il 6 ottobre del 1973. E così i militanti, indeboliti da anni di assedio di Gaza e dai continui raid israeliani, come le operazioni Guardiano delle Mura (2021) e Margine protettivo (2014), sono riusciti a ingannare uno degli eserciti più organizzati e all’avanguardia al mondo provocando circa 1.200 morti e 250 ostaggi, alcuni dei quali sono ancora nelle mani di Hamas a Gaza. Cosa è cambiato dopo il 7 ottobre 2023 Gli attacchi del 7 ottobre di un anno fa hanno dato il via al genocidio in corso a Gaza con oltre 41mila morti, di cui 16mila bambini, una catastrofe umanitaria che ha prodotto quasi 2 milioni di sfollati su una popolazione di 2,4 milioni di persone e la distruzione di oltre l’80% degli edifici della Striscia, incluse scuole e università. Anche gli ospedali, come al-Shifa, e i campi profughi, come quello di Khan Yunis, sono stati presi di mira dall’esercito israeliano (IDF) con il pretesto che avrebbero ospitato terroristi. Non solo, con il passare del tempo i crimini di guerra commessi dall’IDF hanno coinvolto tutta la macchina degli aiuti umanitari. Per esempio questo è avvenuto nel caso dell’ONG World Central Kitchen (WCK). Sette lavoratori della WCK, fra cui tre inglesi, un polacco, un canadese-statunitense e un palestinese sono stati uccisi da un raid dell’esercito israeliano a Gaza dopo aver consegnato cento tonnellate di aiuti a Deir al-Balah. Nella guerra hanno perso la vita circa 200 operatori umanitari molti dei quali lavoravano per le Nazioni Unite. La stessa agenzia ONU per i rifugiati (UNRWA) e il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, dichiarato da Tel Aviv “persona non grata”, sono stati presi di mira da Israele per i loro interventi a sostegno del popolo palestinese. Non solo gli attacchi israeliani sono in violazione del diritto internazionale e contro i diritti umani, ma dimostrano anche che la comunità internazionale, difendendo l’operato di Israele, usa il “doppio standard” rispetto al conflitto a Gaza. E così il Sudafrica ha accusato le autorità israeliane di commettere un genocidio a Gaza davanti alla Corte internazionale di Giustizia (ICJ). Mentre la Corte penale internazionale (ICC) ha emesso mandati di arresto per il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa e i vertici di Hamas. Inoltre, l’ICJ ha più volte ordinato a Israele di fermare la sua offensiva su Rafah, al confine con l’Egitto, e il ritiro immediato dalla Striscia per gli “immensi rischi” causati ai palestinesi. L’Asse della Resistenza Il popolo palestinese era molto più isolato nella regione prima del 7 ottobre dello scorso anno rispetto a oggi. E così Israele ha puntato sulla narrativa dello stato aggredito che deve difendersi dal terrorismo, come se non si trattasse di una guerra che va avanti dal 1948 (anno di fondazione dello stato di Israele) ma di un conflitto iniziato con gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023. È vero che prima di allora, il conflitto era diventato sempre di più una guerra di prossimità, marginale rispetto alle guerre che dilaniano il Medio Oriente, come quella in Siria. Di certo, non ha aiutato la causa palestinese la strategia di normalizzazione tra Israele e i paesi del Golfo, così come l’intesa che stava per essere siglata fra Tel Aviv e Riyad, con la mediazione degli Stati Uniti, in cambio di un accordo di difesa tra Washington e Arabia Saudita. Anche l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi per esempio è sembrato chiaramente appiattito su posizioni pro-israeliane e ha continuato a tenere chiuso il valico di Rafah per i feriti palestinesi. Non solo, i continui attacchi allo status quo a Gerusalemme alla moschea di al-Aqsa, luogo di preghiera per i musulmani e di visita per i non-musulmani, con i raid della polizia israeliana, hanno di sicuro contribuito ad alimentare una delle pagine più sanguinose di questo conflitto. Mentre le proteste nelle principali capitali dei paesi arabi e in tutto il mondo hanno iniziato a mettere in luce i gravi crimini che Israele sta commettendo a Gaza. E così un anno dopo i palestinesi appaiono molto meno soli. Il cosiddetto Asse della Resistenza che ha unito Hamas e Jihad islamico con il movimento sciita libanese Hezbollah, gli Houthi in Yemen e la rete di milizie sciite controllate da Teheran in Siria e in Iraq ha gradualmente rafforzato i legami costruiti nei decenni a suon di gravi perdite con l’uccisione, voluta dagli Stati Uniti, di Qassem Soleimani, guida delle milizie iraniane al-Quds a Baghdad nel 2020, l’assassinio del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran il 31 luglio scorso, e del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah a Beirut lo scorso 27 settembre. Dopo Gaza il Libano Questo ha prodotto un allargamento dei fronti di guerra per Israele. Se inizialmente si registravano solo scaramucce di confine tra il Nord di Israele e il Sud del Libano, poi la guerra dell’esercito israeliano ha coinvolto oltre a Gaza e alla Cisgiordania, anche l’intero Libano, lo Yemen, le milizie sciite in Siria e Iraq fino ad arrivare a Teheran. In due occasioni l’Iran ha attaccato direttamente Israele, superando per la prima volta la sua strategia di promuovere soltanto una guerra per procura contro Tel Aviv. Questo è avvenuto il 14 aprile scorso, dopo i raid israeliani contro il Consolato iraniano a Damasco e lo scorso primo ottobre, in seguito all’uccisione di Nasrallah a Beirut. Fino a questo momento il paese più colpito dagli attacchi israeliani, oltre ai territori palestinesi è proprio il Libano con oltre mille morti, tra cui donne e bambini, e oltre un milione di sfollati interni tra cui centinaia di migliaia di rifugiati siriani. L’escalation del conflitto tra Israele e Hezbollah è iniziata il 17 settembre scorso con decine di morti e 4mila feriti, causati dalle esplosioni di cercapersone, cellulari e walkie-talkie in possesso di membri di Hezbollah in Libano e Siria. Secondo le Nazioni Unite, si è trattato di una “violazione del diritto umanitario internazionale”. Pochi giorni dopo, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha avviato i raid su Beirut con lo scopo di decimare la leadership di Hezbollah, incluse incursioni di terra nel Sud del Libano e al confine con la Siria. L’obiettivo di Israele sarebbe il rientro dei 60mila sfollati israeliani nel Nord del paese, ma invece il fronte libanese sta trasformando i raid israeliani contro Beirut in un nuovo genocidio. Il negoziato e il ruolo degli Stati Uniti Gli Stati Uniti si sono dimostrati di essere parte del problema che ha impedito la soluzione del conflitto. Il presidente USA Joe Biden, che si è ritirato dalla competizione elettorale per il suo secondo mandato passando il testimone alla candidata democratica Kamala Harris, non si è dimostrato capace di imporre un freno a Israele nella sua sanguinosa avanzata verso l’escalation in corso del conflitto in Medio Oriente. Gli Stati Uniti avrebbero potuto spingere più di ogni altro paese per un accordo per il cessate il fuoco a Gaza, ma ha pesato molto l’incognita degli effetti di una rielezione del candidato repubblicano, Donald Trump, che ha esacerbato nel suo precedente mandato lo scontro tra israeliani e palestinesi con lo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, mentre non è detto che l’elezione di Kamala Harris possa davvero modificare significativamente le decisioni sin qui prese da Biden rispetto alla guerra in Medio Oriente. Le questioni ancora aperte, in discussione in Qatar e in Egitto prima dell’aggravarsi del conflitto, andavano dalla durata di una fase preliminare che porti a una tregua permanente al rilascio degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas e di centinaia di prigionieri politici palestinesi in Israele, fino all’incolumità del nuovo leader di Hamas, Yahya Sinwar, e al ritiro completo dell’esercito israeliano da Gaza. Tuttavia, appare evidente che il governo israeliano non è interessato a una tregua né a Gaza né in Libano. Dal canto suo, Netanyahu, su cui hanno pesato le continue proteste anti-governative a Tel Aviv dell’ultimo anno, ha tutto l’interesse a prolungare il conflitto per rimanere al potere. Molti interrogativi restano aperti A un anno dal 7 ottobre 2023, restano ancora molte incognite che forse si scioglieranno nei prossimi mesi di guerra in Medio Oriente. Per esempio fino a che punto vorrà spingersi l’Iran nella guerra contro Israele, vorrà un conflitto su larga scala per superare la crisi di politica interna, determinata dalle proteste anti-governative del movimento “Donna, vita, libertà”, avviatosi ormai due anni fa? Israele potrà mantenere a lungo aperti tutti i fronti di guerra e sarà capace davvero di avanzare via terra in Libano senza incontrare la sostenuta resistenza di Hezbollah? Quali effetti avranno, se ci saranno, i risultati delle presidenziali negli Stati Uniti sul conflitto in corso, ci sarà mai una presa di posizione di Washington che finalmente metta freno ai bombardamenti israeliani nella regione? Di sicuro, un anno dopo, il Medio Oriente non è più lo stesso. D’altra parte, solo il cessate il fuoco a Gaza potrà aprire una nuova pagina di un conflitto che va avanti da quasi ottant’anni. E solo a quel punto si potrà ricominciare a discutere della fine dell’occupazione che permetta a israeliani e palestinesi di vivere in pace. |