16 ottobre ’43, allora e adesso

Mi è stato regalato un titolo, che se è vero che certi libri sono un po’ la punteggiatura della nostra vita, è un punto. 16 ottobre 1943, Giacomo Debenedetti, Einaudi tascabili, è un punto dietro il quale conviene mettersi; e dentro il quale è bene spingersi. Narra – copio dal retro di copertina – della retata nazista nel Ghetto di Roma, una mattina che si concluse con la deportazione di mille ebrei. Storia che ci riguarda, insomma. Ma che rifugge dal dovere della memoria e che non indulge verso coloro che davanti a quella storia si presentarono e si presentano con scarabocchi di pietà. Scritto all’indomani dei fatti, quando ancora lo scempio nazifascista non si era del tutto concluso (e dunque del tutto raccolto), 16 ottobre 1943 è un’interrogazione – lucida e potente – del presente. Un invito, una riflessione, non un riscatto, una redenzione, né un sommario far di conto rispetto a ciò che avvenne. Il libro è suddiviso in due parti: la prima – che dà il titolo – è il racconto dei giorni romani attorno al 16 ottobre; la seconda – Otto ebrei – è il tempo immediatamente successivo, che inchioda tutti gli Alianello della terra (Raffaele Alianello, commissario di Pubblica sicurezza, teste al processo Caruso davanti all’Alta Corte di Giustizia per la punizione di reati fascisti. Roma, 1944). «Restare sempre un mistero. È la grande regola per fondare le tirannidi e il terrore. La cosa si è vista bene in Germania, quando i nazisti si impossessarono del paese. I gregari ripetevano la loro energia e ogni altra risorsa dai gerarchi, i quali la ripetevano da Hitler il quale parlava di un arcano cassetto, dove teneva chiuso un piano economico-sociale per la rigenerazione del Reich. Rauschning ci ha rivelato che quel cassetto era vuoto. Alla base di ogni tirannide, o terrore, c’è quel cassetto vuoto. (?) Aperto il cassetto e trovatolo vuoto, anche Alianello è ricaduto nella originaria semplicità. E probabilmente avrà ragionato: “(?) Qual era, sul cartellino segnaletico del fascismo, il connotato più caratteristico? Quali le impronte digitali del fascismo? Diamine, la persecuzione degli ebrei. Quale, di conseguenza, il più incontrovertibile connotato dell’antifascismo? La protezione degli ebrei. Mostriamo di essere stati pietisti, di avere avuto questo coraggio, e risulteremo senz’altro iscritti, iscritti d’ufficio, senz’ombra di contestazione, nei ranghi dell’antifascismo”». Ma più a fondo, e più oltre, vanno le parole di Debenedetti. Stringono il senso, il significato, l’urlo umanissimo di chi volle capire (la requisitoria prima, l’arringa poi) e non potè. Gli ebrei «perseguitati, proscritti, ammazzati, non già per le loro idee o il loro comportamento, ma come facenti parte di un’entità collettiva, come “razza”, anche i loro benefattori, quando è l’ora di salvarli, non li allineano fra gli altri uomini, a parità di cimenti o di fortune; anzi, li salvano in blocco, rappresentanti quasi anonimi, e non meglio qualificati di una “razza”: particelle segnacaso. Hitler, Mussolini e Alianello». 16 ottobre 1943 è l’interrogazione della Storia. Il punto che non mette fine, che continua a cercare un a capo onesto, aggettivo di ben preciso senso.

Pubblicato il

05.12.2003 05:30
Maria Guidotti