«Il governo non è la soluzione – il governo è il problema». Lo diceva Ronald Reagan tanti anni fa e George W. Bush, l’attuale presidente degli Stati Uniti, canta la stessa musica. Almeno sino all’11 di settembre, quando di colpo molte certezze hanno cominciato a crollare. Quel giorno, dopo l’attacco al Pentagono e alle torri gemelle di New York, gli aeroporti si sono fermati. Quando si sono rimessi a funzionare molta gente ha preferito starsene sicura a casa. In un paese dove mancano le reti sociali sono scattati subito i licenziamenti. Delta, Continental, American Airlines hanno tagliato in pochi giorni decine e decine di migliaia di posti di lavoro. La Boeing sta per mandare a casa 30 mila persone. Anche a Washington e a New York la situazione è per certe persone drammatica. È il caso di Dina Emerita Bonilla. Fino a pochi giorni fa faceva la cuoca in un albergo alle porte di Washington. È una vittima indiretta della chiusura dell'aeroporto Reagan che, con i suoi 42 mila passeggeri quotidiani, assicurava lavoro ad alberghi e ristoranti della zona. Adesso Dina non sa trattenere le lacrime perché i 116 dollari che riceve ogni settimana dall’assicurazione disoccupazione non bastano certo per mantenere lei e due figli. Gli americani, che sino a poche settimane fa avevano gli occhi tutti puntati su Wall Street e sui listini di borsa, di colpo hanno riscoperto Washington e la sua rete di salvataggio. Le prime a bussare alla porte del presidente sono state le compagnie aeree, l’emblema della privatizzazione americana. Bush ha scoperto che la Continental, la terza impresa del settore, ha riserve solo per due mesi; che le misure di sicurezza negli aeroporti sono più che scadenti anche perché il servizio è affidato a imprese private che assumono gente pagando stipendi da fame e senza istruire a dovere. Davanti a quotazioni che calavano a picco, Bush ha varato un pacchetto di 15 miliardi di dollari che aiuteranno soprattutto le compagnie aeree e quindi gli azionisti, ma non anche i lavoratori che adesso si trovano senza occupazione. Quasi contemporaneamente, Bush ha stanziato 40 miliardi di dollari per far fronte alla situazione d’emergenza. Lui, che era venuto a Washington per ridurre lo Stato si trova adesso a rafforzarlo. «Il presidente più conservatore dai tempi di Reagan sta guidando un’amministrazione che ha cominciato a creare nuova burocrazia» osservava recentemente la stampa americana, ancora indecisa se applaudire o criticare questo cambiamento. Bush, infatti, oltre a spendere di più ha anche creato una nuova autorità federale per migliorare la sicurezza nel paese e negli aeroporti, vorrebbe dare più poteri di polizia a chi è autorizzato al controllo delle telefonate e degli e-mail e ha puntato il suo interesse anche sulle transazioni internazionali e il riciclaggio dei soldi, sconfessando tutta la politica e le dichiarazioni fatte in questi primi 9 mesi di presidenza da lui o dai suoi ministri e collaboratori. Repubblicani e democratici sono stati presi in contropiede. Per il momento non hanno una chiara strategia, anche perché sono cresciuti per anni all’ombra del meno stato. «È finita l’era del grande governo» afferma nel 1995 Bill Clinton. Sei anni dopo si scopre che a furia di tagliare, risparmiare e rinviare l’America è sguarnita in molti campi importanti, dalla sanità alla sicurezza, dai trasporti pubblici alla protezione civile. Adesso correre ai ripari non è semplice. C’è il problema del bilancio. Il taglio delle tasse voluto prima dell’estate da Bush aveva già ridotto gli attivi, adesso, a pochi giorni dall’inizio dell’anno fiscale, non si esclude più un deficit per l’anno prossimo. Anche perché Bush dovrà quanto prima varare altre misure per rilanciare un’economia che da mesi perde colpi facendo salire il tasso di disoccupazione e cadere i consumi. La destra economica chiede ancora una volta meno tasse, questa volta sulle operazioni di borsa. Bush, dopo aver assicurato per mesi che solo meno tasse stimolano l’economia, ora preferisce stare zitto. Anche lui adesso ha bisogno di soldi per aiutare il paese ad uscire da una crisi che per l’americano medio è ormai prima di tutto economica. E Bush sa, il padre insegna, che alle urne una crisi economica può essere fatale.

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05.10.01

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