Esteri

Se, come si usa dire in Brasile per tirarsi un po’ su, “Deus é brasileiro” forse, secondo il perfido humor britannico dell’Economist, negli ultimi tempi “era in ferie”. È un fatto che il grande Brasile si trova di fronte a una fase drammatica, la più drammatica dalla fine della dittatura militare (1964-1985). Con cui non ha mai fatto i conti.


Il 7 ottobre, giorno del voto, e il 28, giorno del probabilissimo ballottaggio, le contraddizioni oscene, i nodi irrisolti potrebbero venire al pettine. E non solo se a vincere dovesse essere Jair Bolsonaro – l’ex-capitano dell’esercito candidato di estrema destra e delle sette pentecostali (il 25% dell’elettorato), razzista e misogino (sta spopolando l’hashtag “Ele não”  lanciato da un gruppo di donne: Lui no), nostalgico dichiarato del regime militare –, che i sondaggi danno in testa con il 28 per cento.


Sembrava che con Lula, presidente dal 2003 al 2010, l’eterno futuro del Brasile stesse infine per diventare il tanto atteso presente. Economia in crescita, disoccupazione in calo, incisivi programmi sociali, aggressive politiche di inclusione per scuola e università, sanità e case, milioni di esclusi strappati alla povertà e all’emarginazione. E business a tutto vapore. Con Lula, il primo presidente operaio e di sinistra nella storia classista del Brasile, e il Partido dos Trabalhadores al potere sembrava ce ne fosse per tutti. Lula “il padre dei poveri e la madre dei ricchi”, si diceva, con Lula “i poveri meno poveri e i ricchi più ricchi”.  
Il Brasile scalava il ranking economico, in pochi anni era l’ottava o la sesta economia mondiale; con Russia, India, Cina e Sudafrica era a pieno titolo nei Brics, le economie emergenti. I mondiali di calcio del 2014 e le olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016 dovevano essere la consacrazione. Invece...


Dilma Rousseff, scelta da Lula, eletta nel 2010 e 2014 è stata travolta dagli effetti della crisi mondiale e dal riflusso rovinoso dell’onda progressista dell’America Latina. Ma anche da cause peculiari del Brasile: l’odio delle élite contro Lula, cui non hanno mai perdonato di aver osato arrivare alla presidenza;  il rifiuto del Pt identificato – e non senza ragione – con la corruzione endemica di tutti i partiti politici; la paura e il rigetto delle classi medie per l’ascesa dei poveri; il clima di violenza e di impunità, la perdita del lavoro (il tasso di disoccupazione era del 10,5% nel 2002, del 5,7% nel 2010, dell’11,2% nel 2016). L’esplosione dello scandalo “Lava Jato” (Autolavaggio), nel marzo 2014, è stata la miccia. L’impeachment contro Dilma del 31 agosto 2016 è stato un golpe soft: era una presidente pessima ma legittima e non accusata né di corruzione né di reati. Quella del giudice-star Sergio Moro è stata una inchiesta “facile” visto il livello di corruzione del sistema, ma è stata una farsa rispetto a Lula (senza che questo voglia dire che fosse immacolato), una montatura per evitare, negandogli l’habeas corpus, che si potesse presentare candidato ed essere rieletto in tromba.
È in questo clima che esplode Bolsonaro, fino ad allora un candidato di nicchia, folclorico nel suo estremismo apparentemente folle. Travolti dallo scandalo tutti i partiti tradizionali, e non solo il Pt, incarcerato Lula,  in campo ora restano (salvo sorprese dell’ultima ora) lui e Fernando Haddad, ex ministro di Lula ed ex-sindaco di San Paolo. Il “petismo” contro “l’antipetismo” viscerale e violento, un paese impaurito e rabbioso spaccato a metà, con i militari, dietro, che vigilano e lanciano segnali.


Il Pt ha deluso, Dilma è stata pessima, Lula (come minimo) non ha fatto abbastanza attenzione. Ok. Ma Bolsonaro fa paura. Anche alla destra liberal-liberista sia di dentro che di fuori. Come i media brasiliani, storicamente anti-Lula e anti-Pt ma stavolta, fra Bolsonaro, che è troppo anche per loro, e Haddad? E come l’Economist, che l’ha messo in copertina la settimana scorsa. La sua eventuale entrata nel club “populista” dei Trump negli Usa, dei Duterte nelle Filippine, dei Salvini in Italia, sarebbe «particolarmente sgradevole» perché se lui vincesse «potrebbe mettere a rischio la stessa sopravvivenza della democrazia nel maggior paese dell’America Latina». Insomma anche per lorsignori Bolsonaro è «la più recente minaccia» per l’America Latina e sarebbe «un presidente disastroso» per il Brasile.

 

I candidati
I candidati alle presidenziali sono 13 ma quelli da tenere in conto sono 5: Jair Bolsonaro, Psl (Partido Social Liberal); Fernando Haddad, Pt (Partido dos Trabalhadores); Ciro Gomes, Pdt (Partido Democrático Trabalhista); Gerardo Alckmin, Psdb (Partido da Social Democracia Brasileira); Marina Silva, Rede Sustentabilidade.


I sondaggi diffusi il 24 settembre danno Bolsonaro in testa col 28% (come nel rilevamento precedente del 18), Haddad secondo col 22% (l’11 settembre, al momento della rinuncia definitiva di Lula, era all’8%), Ciro Gomes terzo con l’11%, Alckmin quarto con l’8%, Marina Silva in caduta col 5%.
L’indice di “rejeição”, rigetto (il candidato per cui non si voterebbe mai), vede primo Bolsonaro (46%, +4% rispetto alla precedente rilevazione), Haddad al 30%, Marina Silva al 25%.


Le proiezioni sul (probabilissimo) ballottaggio danno, per la prima volta, Haddad in vantaggio su Bolsonaro: 43% contro 37% (i due erano appaiati sul 40%). Ma Bolsonaro risulta perdente anche rispetto agli altri eventuali avversari del 28 ottobre: 46-35 con Ciro, 41-36 con Alckmin. Per le sue posizioni machiste e misogene Bolsonaro risulta inviso alla grande maggioranza delle donne (49% contro 17%), che sono la maggioranza dell’elettorato.

Pubblicato il 

27.09.18
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