Improvvisamente si sono spenti i semafori. Poi i climatizzatori degli uffici e dei supermercati hanno cessato di ronzare. I black-out sono ormai una routine per i sei milioni di abitanti di Hangzhou, una metropoli industriale nei pressi di Shanghai. «Quel che mi irrita di più è che mi si guastano i prodotti surgelati», dice con tono lamentoso Lu Guohong, commerciante. Nella strada dove si trova il suo negozio i servizi industriali della città tagliano la corrente ogni martedì, per diverse ore.
Il Dragone ha fame. Dopo 25 anni di riforme la Cina è in pieno boom economico. Una crescita senza precedenti. Le gigantesche istallazioni industriali lungo la costa funzionano senza sosta per soddisfare la domanda dei mercati mondiali. Una macchina fotografica su due, un climatizzatore su tre e un televisore su quattro portano la dicitura "Made in China". Ma più le catene di montaggio aumentano il ritmo, più il Paese ha il fiato corto. In 24 delle 31 province e regioni autonome che formano la Repubblica popolare cinese l'energia non è sufficiente. Malgrado le decine di centrali elettriche costruite in questi ultimi anni il deficit è di almeno 30 mila megawatt.

La Cina vive una crisi energetica

«Il Paese vive una crisi energetica», ammette inquieto Joe Zhang, sinologo presso il gigante bancario Ubs a Hong Kong. Ed è il mondo intero a subire le conseguenze di questa espansione incontrollata. Il prezzo del petrolio sale in continuazione ormai da anni, e gli analisti sono concordi: il problema non risiede tanto in Iraq, quanto in Asia. «La crescita cinese ha completamente spiazzato l'industria petrolifera», osserva Scott Roberts, esperto in questioni energetiche.  Il bisogno di petrolio in Cina aumenta con tassi che arrivano fino al 20 per cento ogni anno: la Repubblica popolare ha ormai soppiantato il Giappone al secondo posto della classifica dei paesi che dipendono dall'oro nero. Solo gli Usa ne consumano di più. "Ed è solo l'inizio", come ha avuto modo di dire lo stesso presidente americano George W. Bush.
La prima volta che la luce è andata via la signora Lu stava cenando. «Ora la maggior parte dei black-out ha luogo di giorno, quando gli impianti di produzione funzionano a pieno regime», spiega. L'amministrazione comunale di Hangzhou ha  messo in opera una sorta di razionamento dell'energia elettrica. I colossi industriali come Zhongce Rubber, che produce ogni anno 8 milioni di pneumatici per automobili e 45 milioni di gomme per biciclette, hanno dovuto ridurre i ritmi di lavoro. Nelle scuole, negli uffici e negli edifici pubblici sono obbligatorie le lampadine a basso consumo di energia. Perfino la passeggiata che costeggia il lago Occidentale, un luogo privilegiato per i turisti e la gioventù locale, è lasciata al buio. «Per risparmiare abbiamo deciso di sospendere l'illuminazione notturna dei parchi e dei monumenti» conferma Shen Jian, il vicesindaco.
Malgrado questi sforzi la città di Hangzhou è prossima al tracollo. La crescita economica ha permesso a molti suoi abitanti di acquistare un climatizzatore, ma quando fa molto caldo la corrente salta e le fabbriche si fermano. I blocchi della produzione riguardano anche la fabbrica della Coca-Cola, la più grande della Cina, e la General Motors di Shanghai: la direzione è perfino arrivata a chiedere ai dipendenti di non fare uso degli asciugamani ad aria calda nelle toilettes.
Al museo delle Acciaierie di Stato di Hang Gang si proietta ai 18 mila impiegati un breve film sulla success story di cui sono protagonisti. Una serie di grafici che, anno dopo anno, sempre più puntano dritti verso il cielo. In realtà la fabbrica è stata costretta a ridurre la potenza degli altoforni per mancanza di energia. «Il nostro problema principale è l'approvvigionamento di carbone», spiega la Hang Gang. Quando ce n'è, per portarlo fin qui dalle province della costa ci vogliono due giorni di treno. Inoltre l'acciaieria ha delle infrastrutture obsolete che consumano il doppio di quanto facciano strutture simili in Giappone o in Europa.
Hangzhou è un esempio perfetto del modello di sviluppo economico cinese. Grazie ad una radicale politica di aperture, ad una bassa fiscalità e a una manodopera a buon mercato, la metropoli industriale situata sul delta dello Yangtse fa registrare dal 1990 tassi di crescita annui a due cifre. Sulla città piovono investimenti stranieri per un miliardo di dollari all'anno. Il boom lo si vede ovunque: grattacieli lussuosi, bar all'americana, centri commerciali e boutiques degli stilisti più in voga. Tutto cresce a un ritmo vertiginoso – e il governo di Pechino è preoccupato: l'economia cresce troppo in fretta per non generare degli effetti collaterali. «Stiamo per raggiungere il punto d'ebollizione», scrive il China Daily, il quotidiano statale. Ma anche il Washington Post la pensa allo stesso modo: «la Cina consuma la metà del cemento, un terzo dell'acciaio, un quarto del cuoio e un quinto dell'alluminio prodotti ogni anno nel mondo».

Si punta sull'energia nucleare

Il primo campanello d'allarme è suonato nel settore energetico. Con una capacità di circa 400 milioni di kilowatt, la Repubblica popolare cinese è il secondo produttore di elettricità del pianeta. Le sole centrali inaugurate nel 2004 generano tanta elettricità quanta ne produce l'intera Gran Bretagna. Ma non basta. Per non rallentare la crescita il Paese ha deciso di puntare sul nucleare. Entro il 2010 quattro nuove centrali atomiche dovrebbero poter saziare la fame di energia di due delle province più attive, quelle di Guangdong e di Zhejiang. Entro il 2020 il 10 per cento del fabbisogno energetico della Cina dovrebbe essere coperto dal nucleare, ricorrendo anche a nuove tecnologie come dei reattori a neutroni rapidi.
Per i cinesi la diga delle Tre Gole dovrebbe essere un'altra parte della soluzione del problema energetico. Alta 185 metri, essa sorge lungo lo Yangtse a 800 chilometri a ovest di Hangzhou. Il prossimo anno, quando i suoi 26 generatori saranno in funzione, diventerà la più grande centrale idroelettrica del mondo. La sua produzione sarà pari a quella di 15 centrali atomiche e da sola fornirà l'energia a tutta la Cina centrale. Per realizzare questo progetto il governo ha preteso uno sforzo economico e sociale gigantesco: 30 miliardi di franchi sono stati investiti e più di un milione di persone sono state sfollate dalle loro abitazioni. Ma nemmeno questa centrale basterà.
Due terzi dell'energia elettrica consumata in Cina provengono dal carbone. Una materia prima estratta con modalità rudimentali e che causa ogni anno migliaia di incidenti mortali. Gli esperti stimano le riserve di carbone in 1'400 miliardi di tonnellate, che basterebbero per mille anni. Ma l'industria mineraria fatica a soddisfare i bisogni interni. E quando il Paese ha bloccato le esportazioni, sui mercati mondiali c'è stata un'impennata del prezzo del carbone. L'Unione europea, che con il carbone cinese alimenta le sue acciaierie, ha minacciato di denunciare Pechino all'Organizzazione mondiale del commercio.
«La crescita esponenziale del fabbisogno energetico è uno dei sintomi tipici dello sviluppo politico ed economico», dice Seethapatay Chander, consulente della Banca asiatica per lo sviluppo. E l'appetito della Cina per il petrolio è ancora maggiore della sua fame di carbone. Fino al 1994, tutto il greggio estratto dal sottosuolo cinese (la Repubblica popolare è il quinto produttore al mondo) era destinato all'esportazione. Oggi non solo la Cina consuma il suo oro nero, ma ne deve pure importare. Entro una decina d'anni la Cina dovrebbe essere il primo paese consumatore di petrolio, superando gli Stati uniti.
Ormai imperversa la guerra per il controllo delle risorse energetiche del pianeta. L'industria petrolifera cinese sta conducendo una politica espansionista molto aggressiva e la concorrenza con le società straniere si fa di giorno in giorno sempre più feroce. Già nel 2002 per esempio la China National Offshore Oil Corporation ha fatto man bassa di giacimenti in Australia ed Indonesia, mentre la Sinopec, la seconda compagnia petrolifera del paese, ha concluso dei contratti di fornitura con l'Azerbaigian e il Kazakistan. L'obiettivo strategico del governo è di diminuire la dipendenza dal Medio Oriente. Nel 2004 la metà delle importazioni cinesi di petrolio provenivano dal Golfo persico, in particolare dall'Iran e dall'Arabia saudita. Un ulteriore aumento della tensione nella regione potrebbe portare al tracollo l'intero sistema produttivo cinese. «Dobbiamo essere pronti ad ogni evenienza», afferma Tong Lixia, membro dell'Accademia di Stato per il commercio e la cooperazione con l'estero. Il piano prevede la messa in servizio di un gasdotto di 4 mila chilometri fra lo Xinjiang, nel nord-est, e Shanghai. Un'opera da 15 miliardi di dollari.

Più automobili, più petrolio

La strada che porta al benessere economico passa anche da rivendicazioni territoriali. Inviando una piccola flotta di navi militari e di pescherecci la Cina ha risolto il contenzioso aperto sulle isole Spratly, una zona ricca di gas e petrolio: gli Stati confinanti (Filippine, Vietnam, Malaysia e Indonesia) non hanno potuto far altro che inchinarsi di fronte alla superiorità economica e militare della Repubblica popolare cinese. Questa irresistibile crescita economica inquieta il Giappone. All'inizio il boom cinese aveva rilanciato anche l'economia nipponica, ma ormai Pechino è diventato un pericoloso concorrente per Tokyo. Cina e Giappone si sono contesi l'accesso ai giacimenti petroliferi siberiani di Angarsk. Il percorso dell'oleodotto potrebbe determinare il futuro sviluppo economico dell'intera Asia. Alla fine l'ha spuntata Pechino, che spera di inaugurare l'oleodotto Angarsk-Daqing nel 2010. Con i 20 milioni di tonnellate di petrolio russo la Cina potrebbe ridurre del 25 per cento le sue importazioni.
Il petrolio è sempre più necessario perché sempre più cinesi vogliono l'automobile. Gli stereotipi occidentali si ripetono anche in Cina, con modelle in minigonna a posare accanto a lussuose fuoriserie. Il Salone dell'automobile di Pechino attira sempre le folle: quest'anno l'Auto China Show è stato visitato da oltre 600 mila persone. Già diversi giorni prima dell'apertura non si trovano più biglietti. «I miei amici hanno tutti la macchina», dice Wu, 37 anni, un agente immobiliare. Esita fra un'auto sportiva e un'utilitaria. Il mercato automobilistico cinese cresce a ritmi del 30 per cento ogni anno. Se il numero di automobili pro capite fa ancora sorridere confrontato a quello degli Stati Uniti, la Cina comincia a far paura anche come produttore: nel 2005 per la prima volta le esportazioni di automobili hanno superato le importazioni. Alla fine il signor Wu s'è deciso per un Suv.

Pubblicato il 

11.07.08

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