Tutte le piazze unite

Questa è una grande giornata, da osservare e studiare con passione e freddezza. 120 manifestazioni e cortei in ogni città, ognuna con una sua peculiarità, in ognuna c’è un segno da individuare per cogliere il filo rosso che percorre tutto il paese. Un paese risvegliato dalle sue stesse difficoltà che si riappropria della sua soggettività. E questa Cgil, la stessa che il 23 marzo ha portato in piazza a Roma tre milioni di persone, vuole essere una buona levatrice, come lo è stata in anni più bui, pensiamo al ’55, quando un’altra modernizzazione riteneva di poter ridurre il lavoro a poco più di zero. Anche allora quella modernizzazione appariva vincente, come oggi, e anche allora la Cgil, quella di Giuseppe Di Vittorio che era la Cgil degli occupati e dei disoccupati riuscì a svelare l’inganno e a rimettere insieme culture ed energie democratiche. Guglielmo Epifani, neo-eletto segretario generale della Cgil dopo il ritorno in Pirelli di Sergio Cofferati, ha appena incassato il suo primo bagno di folla in una piazza difficile ed esigente, piazza San Carlo a Torino che in momenti di conflitto non risparmiò fischi ad altri, prestigiosi segretari generali. Non è successo venerdì scorso, quando la Cgil si è presentata in tutte le città italiane come punto di riferimento, casa comune per l’Italia democratica orfana di rappresentanze politiche. Guglielmo Epifani e la Cgil hanno vinto la sfida più difficile: chiamare da soli allo sciopero l’intero paese contro la politica economica e sociale del governo Berlusconi. Nella sua strada, la Cgil ha incontrato la grande maggioranza dei lavoratori: il 18 ottobre il consumo di energia elettrica nell’industria si è ridotto del 58 per cento, la scuola si è fermata ovunque così come la sanità e l’insieme dei servizi. Dal Nord al Sud fino alle isole, nei cortei sono tornati in massa gli studenti, i pensionati, i disoccupati, i giovani dei social forum che si battono contro la globalizzazione neoliberista, i pacifisti di Emergency, i girotondini di Nanni Moretti. I comizi sono terminati, lo striscione della Fiom di Mirafiori è già stato arrotolato mentre gli studenti non sono ancora riusciti ad aprirsi un varco nel “salotto buono” di Torino. Epifani guarda dal palco di piazza San Carlo una città che con la drammatica crisi della Fiat rischia di perdere, insieme al lavoro, un’identità secolare, e si sente addosso una grande responsabilità. Il segretario ha accettato di rispondere alle nostre domande per raccontare la sua Cgil e i suoi obiettivi ai lettori di area. Questo sciopero ha riaperto una speranza nel paese. Eppure c’è chi, anche a sinistra, storce il naso, lancia generici appelli all’unità con Cisl e Uil che, firmando il Patto per l’Italia con il governo Berlusconi e la peggior Confindustria degli ultimi decenni, hanno provocato una grave lacerazione nel mondo del lavoro dando il via libera alla cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e a una nuova pesante deregulation. Persino nei Ds c’è chi rema contro, ormai alla luce del sole. E vi accusano di fare politica, e svolgere un ruolo di supplenza… La Cgil è e vuole restare un sindacato, non abbiamo e non vogliamo avere ambizioni di egemonia ma è un dovere costitutivo essere un punto di riferimento, innanzitutto culturale, per la società. Sarebbe importante che questo sciopero, questa nostra battaglia in difesa dei diritti venissero vissuti come una risorsa e non come un problema dalle forse politiche che si battono contro Berlusconi. La mobilitazione di milioni di lavoratori e cittadini è un’opportunità – la nostra battaglia è stata importante anche per la Francia e la Spagna – e non deve essere vissuta come un intralcio, anche per una nuova unità sindacale che non si fa su patti mediocri o peggio, ma sulla condivisione dei valori della cultura del lavoro, dell’importanza del lavoro anche in questo nuovo secolo. Questa condivisione di valori è l’unica base possibile di pluralismo e unità. Vedi, a marzo tutti disastri della politica economica e sociale del governo, i guai provocati dall’incapacità del ministro Tremonti precipiteranno. Ci diranno che è necessaria una nuova manovra, perché neanche i tagli odiosi che hanno annunciato riescono a fare davvero: sono litigiosi e divisi, temono a ragione di perdere le sacche di consenso che aveva consentito loro di occupare Palazzo Chigi. Al Nord-Est gli industriali che hanno bisogno di manodopera anche immigrata sono furiosi per la legge Bossi-Fini, al Sud perché hanno tagliato incentivi per l’occupazione modificando le regole fiscali a partita iniziata: che devono fare per accedere al credito, affidarsi alla criminalità organizzata? Hanno prodotto divisioni nel corpo sociale, presunti garantiti contro precari, attacchi alle pensioni… E se le contraddizioni del governo esploderanno, sono sicuro che quelli che oggi ci criticano e ci accusano, che erano contro lo sciopero, faranno la fila davanti alla Cgil per dirci: dobbiamo essere uniti, tutti insieme con la Cgil per salvare l’Italia in uno spirito di unità nazionale. Riscopriranno persino il valore della concertazione. Ma questa volta la Cgil non ci starà, risponderà di no. A meno che non saremo noi a dettare le condizioni. Non saremo i garanti del sacrificio dei lavoratori, dei tagli alla sanità e tutto il resto. Questo, governanti e parlamentari se lo devono togliere dalla testa: non ci sarà governo istituzionale, di salute pubblica o di unità nazionale che ci convincerà. Trattare è sempre possibile, il sindacato e la Cgil in particolare non sono “massimalisti”. Trattare si può, ma alle condizioni della Cgil e dei lavoratori occupati e disoccupati che rappresenta. Cisl, Uil, Confindustria e persino una parte dell’Ulivo contestano: avete fatto uno sciopero inutile. In ogni caso resta la domanda: come si va avanti? Che succede domani? Sciocchezze. Se l’articolo 18 che vuole riconsegnare alle imprese il diritto di licenziare senza giusta causa è fermo in parlamento e probabilmente ci resterà fino al prossimo anno, è segno che la nostra battaglia e i quattro milioni di firme che abbiamo già raccolto qualche frutto l’hanno prodotto. Certo, non si può pensare di procedere con uno sciopero dopo l’altro. Ci sono i contratti da rinnovare, i diritti da difendere ed estendere a chi ancora non li ha. Serve un nuovo grande patto per il lavoro che metta al centro – ti elenco soltanto i titoli – l’occupazione e la sua qualità, il Mezzogiorno che versa in condizioni allarmanti, una nuova politica industriale. A questo proposito, voglio dire che l’Italia non ha più una propria politica industriale, come dimostra il caso Fiat. Abbiamo perso comparti importantissimi, dall’elettronica alla chimica all’acciaio. Con la crisi dell’auto siamo alla frutta. È necessaria una presenza pubblica nella proprietà dell’ultima grande industria italiana, per accompagnare e orientare progetti di rilancio, salvaguardando l’occupazione e tutti gli stabilimenti. Il problema della Fiat è anche la sua proprietà, la famiglia Agnelli è numerosa e ha in testa la rendita e nient’altro. Dicono che gli Agnelli sono 130, e molto prolifici. E tutti vivono sul lavoro degli operai della Fiat. Il governo non dà risposte adeguate, lascia fare, accompagna un processo di dismissione dell’ultimo, il più importante, settore industriale. Almeno la Thatcher, la lady di ferro, un progetto di ricostruzione alternativa a quel che distruggeva, sia pur discutibile, ce l’aveva. Noi, nell’Italia di Berlusconi, siamo al buio, senza progetti per il futuro. Un nuovo contratto sociale incentrato sul lavoro riporta a quel quadro che tu, Guglielmo Epifani, hai appeso dietro la scrivania, il ritratto di Giuseppe Di Vittorio di Carlo Levi. Con quali alleanze è possibile? Con i giovani, innanzi tutto. Nelle 120 piazze del 18 c’erano tanti studenti e ragazzi e ragazze che vivono nella precarietà prodotta da una flessibilità incontrollata che oggi si vorrebbe aumentare. C’erano i pensionati e gli anziani che si vedono smantellare una rete di servizi per loro fondamentale e la cui pensione viene ripetutamente messa sotto accusa. Abbiamo conquistato un welfare, ma ora non possiamo restare in tiepida difesa del vecchio stato sociale e farci anche accusare di conservatorismo. L’obiettivo è un nuovo contratto sociale che rilanci diritti e sviluppo, e su questo terreno mi sembra che abbia ricominciato a muoversi l’Europa, dove i sindacati vivono una stagione di ripresa. Con noi hanno manifestato centinaia di sindaci, presidenti di provincia e regione che hanno a che fare con scelte insensate e pericolose alla base della Finanziaria, ai territori si sottraggono risorse importanti con la conseguenza di ridurre i servizi. I tagli di spesa agli enti locali non sono cosa di poco conto: altro che decentramento, stiamo andando verso un arbitrio centralistico, in un conflitto politico-ideologico tra le forze che compongono la maggioranza di governo, tra Lega e Alleanza nazionale, e non solo. E poi ci sono i cattolici… Con noi ha manifestato un pezzo importante del mondo cattolico che condivide gli stessi valori. Con la cultura cattolica, sociale e del lavoro, ci stiamo confrontando, la stessa composizione della segreteria della Cgil mostra un pluralismo e un’apertura inediti. Il punto di confronto è la cultura del lavoro, in un momento in cui persino a sinistra fa adepti un’idea malintesa e miope della modernizzazione che celebra la fine del lavoro. Non solo non ci sarebbero più le classi ma il lavoro sarebbe ridotto a entità trascurabile. E’ una logica assurda e antistorica, e su questo terreno c’è un’intesa, fino a ieri inimmaginabile, con il mondo cattolico che continua a pensare il lavoro fondativo della personalità umana. Associazioni, parrocchie, si sono schierate con noi sullo sciopero e ci aiutano a raccogliere firme per il referendum contro l’eliminazione dell’articolo 18. La pace – una scelta di campo per noi irrinunciabile – è un altro terreno importante di confronto, con i cattolici e con i giovani. A Torino, dal palco, ho dato appuntamento a tutti a Firenze, in novembre, per il social forum europeo. Spesso fai riferimento al declino dell’Italia e hai detto che lo sciopero e la battaglia della Cgil, prima che “contro” sono “per” l’Italia. Cosa intendi? Questo anno e mezzo che sta alle nostre spalle conferma che il paese è entrato in una spirale di declino e divisione. Declino economico e sociale, tra Nord e Sud, tra poteri locali e potere centrale. Si tratta di un mix assai pericoloso per la democrazia italiana. Il sostanziale populismo di questo governo produce individualismo, massificazione e rassegnazione, la negazione della politica e della democrazia. Diciamo che la nostra battaglia per i diritti – e con essa lo sciopero di venerdì - è per l’Italia, per il futuro degli italiani perché è diretta a coniugare diritti, interessi e sviluppo non solo economico ma anche culturale e sociale. La componente culturale è importantissima. Certo, ma se pensi allo stato in cui è ridotta la nostra scuola… Alle origini del nostro declino c’è proprio il declino della scuola. Non parlo della ricerca che sta agli stracci, ma della scuola, del luogo di formazione dei lavoratori e dei cittadini. In piazza abbiamo visto più ragazzini, studenti e studentesse, che capelli bianchi e grigi e questo dovrebbe insegnare qualcosa ai nostri detrattori che ci chiamano conservatori.

Pubblicato il

25.10.2002 07:30
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