Lunedì scorso è avvenuto un fatto clamoroso. Imprenditori, lavoratori e maestranze, assieme, hanno manifestato a Bruxelles “contro quei prezzi stracciati che uccidono l’industria”. I prezzi stracciati sono quelli applicati dalla Cina nella vendita dell’acciaio. Possibili in due modi. Dapprima, per la sproporzione enorme nei costi di produzione, dati dai salari, dagli oneri sociali, dalle condizioni di lavoro, dall’applicazione delle norme antinquinamento (assenti o senza controlli). Poi, per una concorrenza sleale aggressiva, con prezzi al di sotto dei costi, grazie al sostegno statale, per conquistare nuovi mercati o smaltire una produzione eccedente. Oggi l’acciaio trasformato cinese costa circa 300 euro alla tonnellata, ciò che in Europa non basta nemmeno per acquistare la tonnellata di minerale necessaria per fabbricarlo. Proseguendo in questo modo, si sostiene, l’industria metallurgica europea scomparirà entro diciotto mesi. Industria che dal 2008 ha già perso centomila posti di lavoro diretti o indiretti.


Quel fatto clamoroso induce a riflessioni più ampie. Da una trentina d’anni, l’evoluzione economica mondiale è dominata dallo smantellamento degli ostacoli alla libera circolazione delle merci e dei capitali. Un modello impostosi come indiscutibile: il libero-scambio è l’obiettivo da raggiungere, il protezionismo il male assoluto. La competitività, essere meno cari degli altri, diventa il metodo unico per imporsi. La strategia di questo tipo di economia consiste nel produrre per esportare, fare alti profitti, utilizzare le entrate d’esportazione per investire, soprattutto nei giochi finanziari. In questo mondo volto all’esterno, la domanda interna non è mai prioritaria, i salari devono rimanere deboli, le condizioni di lavoro migliorano (se migliorano) molto lentamente perché generano costi supplementari, l’ineguaglianza è sempre crescente, l’industrializzazione spinta alla massima competitività si accompagna a catastrofi sociali (calo dei redditi da lavoro, licenziamenti, disoccupazione, condizioni di lavoro) ed ecologiche (protezione dell’ambiente costo inaccettabile).


Un tempo, il rapporto di forza tra capitale e lavoro si formava in un quadro nazionale. Oggi il capitale può facilmente spostarsi all’estero, dove trae maggior profitto (dislocazioni). I lavoratori che sono riusciti nel tempo ad ottenere salari e condizioni di lavoro dignitosi, se li trovano contestati e compromessi da lavoratori meno esigenti o poco costosi di un altro paese. Il discorso della competitività si esprime sempre in una forma di ricatto delle imprese e degli imprenditori nei confronti di popoli e nazioni. L’apertura delle frontiere o il libero-scambio hanno messo in pericolo le solidarietà nazionali. Le imprese praticano il “turismo fiscale” o inducono gli stati a farsi una concorrenza fiscale suicida. Non vogliono in tal modo contribuire ai costi delle infrastrutture pubbliche o ai costi della formazione della manodopera.


È giusto in nome del libero scambio assoluto diminuire il controllo pubblico, politico, sull’attività economica, come se lo sviluppo degli scambi internazionali debba essere fine a sé stesso? L’apertura non dovrebbe essere al servizio dei popoli, del bene comune, di uno sviluppo che rispetti la dignità dell’uomo? L’esempio da cui siamo partiti, anche se per certi aspetti estremo, dimostra che il libero-scambio va limitato quando è necessario per la protezione dell’uomo, della vita sociale, della coesione nazionale. E non si parli di protezionismo economico.

Pubblicato il 

17.02.16
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