Dopo tutto ciò che è già stato detto e scritto, sembra superfluo ritornare a parlare di elezioni elvetiche. Ci sono tuttavia tre considerazioni di carattere generale che, proprio per le incongruenze che rilevano, stuzzicano e non si possono accantonare per avvenuta nausea elettoralistica.


Con la prima emerge il trionfo dell’ambiguità. È stata una vittoria elettorale fondata sulla negazione, non sulla proposizione; sulla reazione viscerale a un accadimento d’attualità, non su un progetto di società. Da un lato abbiamo: no all’immigrazione di qualsiasi natura (compresa quella frontaliera); barriera stagna e impermeabile di fronte alla massa di derelitti che fuggono dal Vicino Oriente chiedendo rifugio; ripresa non più procrastinabile (rispetto ad una decisione popolare e ad un articolo costituzionale che non lasciano scampo) di quei meccanismi politico-burocratici-statuali che rendano finalmente “libero” e sovrano lo Stato-nazione di dire ciò che vuole e chi non vuole. D’altro lato: una fede convinta e ribadita senza dubbi nella globalizzazione economica e divinazione del libero mercato, fonti di grandi affari, esclusione dello Stato e della politica dall’economia, eliminazione delle sue dande mefitiche di sorveglianza e di controllo che ostacolano concorrenza e competitività.


Con la seconda abbiamo l’imposizione contraddittoria della libertà. La libertà sempre proclamata come il diritto di fare ciò che si vuole, di ricavare subito il massimo profitto, senza intralci, di proteggere come sacra e inviolabile la proprietà. Per gli economisti portaborse questa concezione della libertà è ovvia. Ed è quella che si vende, che vince. La libertà è però anche il diritto di non subire nessuna intrusione da parte di altri. In questo caso la libertà degli uni implica fatalmente restrizioni per altri. Gli interessi si fanno allora contrapposti. Trovare un equilibrio significa porre dei limiti, significa governare. Gli economisti parlano raramente di questi limiti. Eppure è sotto gli occhi di tutti e non sfugge alle menti non ottenebrate dal neoliberismo che gli equilibri si rompono o risultano difficili perché alcuni, grazie alla loro potenza finanziaria, si appropriano nel proprio interesse della propaganda, dei meccanismi elettorali e istituzionali (lobby), dell’idea di essere l’unica alternativa governativa possibile, pena un quadro terrificante per l’economia, la sicurezza, il posto di lavoro, il benessere, la fine dell’eccezionalità elvetica nell’Europa e nel mondo. Comunque sia, in un momento di incertezza e di paure, è poi preferibile accontentarsi di asserzioni forse criticabili, ma che procedono nel solco dell’ordine e dell’autodifesa.


Con la terza si entra nella più illogica logica che si possa immaginare, che ha un’impronta universale. Tutti sembrano convenire (almeno a livello di grandi organizzazioni internazionali o di ricerche e studi pubblicati anche da vari istituti universitari, cantonali o privati) che l’economia dominante è causa di diseguaglianze e disintegrazioni sempre crescenti, di consumi insensati di natura e territorio, di moltiplicazione di rischi catastrofici ambientali o sociali, di disumanizzazione preoccupante dei rapporti di lavoro, di predominio di oligarchie finanziarie-economiche che stanno svuotando la democrazia e la sovranità popolare. La buona logica direbbe che, date le premesse, la conclusione porta alla loro condanna, all’eliminazione o alla defenestrazione di chi ne è il corifeo. Succede il contrario: trionfano i corifei, divenuti ancora più affidabili. Mistero popolare. Soprattutto delle classi popolari.

Pubblicato il 

22.10.15
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