Il verbo ignorare può avere diversi significati. Il più comune è: non conoscere, non sapere. Quando leggo sul giornale che una consigliera comunale definisce "scempio" la situazione venutasi a creare a Chiasso con la presenza dei richiedenti l'asilo, posso solo dire che questa "onorevole" è ignorante, cioè non conosce il significato delle parole. Scempio significa strage, sterminio, carneficina, massacro, danno grave e irrimediabile. Come si fa a usare questa parola per riferirsi a alcuni episodi, certamente riprovevoli, di piccola criminalità, episodi che andrebbero analizzati nelle loro cause psicologiche e sociali? Semmai quelle parole grosse andrebbero usate per descrivere i paesi dai quali i richiedenti fuggono in cerca di una vita meno disumana. Quindi, attenzione a come usiamo la lingua. Le parole sono oggetti delicati che dobbiamo saper maneggiare con cura, talvolta sono armi che feriscono e avvelenano i rapporti in una comunità.
Un altro significato di ignorare è: fingere di non conoscere, di non vedere; far mostra di non accorgersi di qualcuno o qualcosa. Si può anche  "accettare la legittimità di un certo grado di ignoranza" (Gitta Sereny), come fecero i tedeschi ai tempi di Hitler. L'indifferenza mi sembra un atteggiamento molto diffuso tra la popolazione. Paradossalmente, più siamo informati (Ignacio Ramonet dice che "una sola copia dell'edizione domenicale del New York Times contiene più informazioni di quante ne potesse acquisire una persona colta nel XVIII secolo durante tutta la sua vita") e meno conosciamo davvero. Oppure, chi s'informa davvero è solo una piccola minoranza: gli altri o non conoscono, o fingono di non vedere e rimangono indifferenti. Non avendo mai sperimentato una situazione di grave disagio, non sanno mettersi nei panni degli altri.
Ignorare l'altro. Ignorare l'altro che si rispecchia in me. Ignorare la mia persona che si rispecchia nell'altro: l'ignoranza è la madre dell'indifferenza. Lo straniero è un altro me stesso: io con lui ho in comune il fatto che sono un essere umano. Come scrittore e poeta, credo che una delle funzioni della letteratura sia, oltre a quella di toccare la verità delle cose, anche quella di lottare contro l'indifferenza, in modo che il lettore possa identificarsi con il suo prossimo. Io non vivo in solitudine, anche se talvolta la solitudine è da preferirsi alla socievolezza malata della nostra società. Vivo con altri, ho bisogno dell'altro. Il rapporto con chi mi vive accanto è vitale. La poesia può contribuire a forgiare la sensibilità, a esercitare la propria umanità, a influenzare il comportamento politico: ma sappiamo che la letteratura autentica, non quella di evasione, è appannaggio di pochi.

Pubblicato il 

20.04.12

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