Stephan Schmidheiny «incurante dell’uomo e dell’ambiente»

L'ex patron di Eternit pensava solo al lucro, scrive il Tribunale di Torino motivando la condanna a 4 anni per omicidio colposo

Stephan Schmidheiny «era ben consapevole della pericolosità dell’amianto» ma, «in nome della sola produttività commerciale e del profitto, decise di scaricare i costi umani e ambientali» connessi al suo utilizzo «sulle popolazioni e sui territori dei comuni che ospitavano gli stabilimenti» Eternit. È uno dei passaggi centrali della sentenza di condanna del miliardario svizzero a 4 anni di reclusione per omicidio colposo aggravato, pronunciata nel maggio 2019 dal Tribunale di Torino ma le cui motivazioni sono state depositate solo alcune settimane fa.

Una condanna legata alla morte di un ex operaio dello stabilimento Eternit di Cavagnolo (controllato dall’imputato tra la metà degli anni Settanta e il 1982, anno della chiusura) e di una cittadina che abitava nelle vicinanze, che chiude il primo atto del primo dei quattro processi Eternit bis in corso in Italia.


Analizzando la colpa di Schmidheiny, il giudice Cristiano Trevisan sottolinea come egli decise, «a meri scopi di lucro», di mantenere le fabbriche «in condizioni di igiene ambientale disastrose, che esposero la salute dei lavoratori addetti e delle popolazioni residenti a gravi e deleterie conseguenze». Una situazione di «estrema carenza» che si osservava in tutti e quattro gli stabilimenti italiani.

 

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Quella di Cavagnolo è «paradigmatica», si legge nella sentenza: «Un comune praticamente lastricato d’amianto, che, con dissennata insensatezza, veniva condotto fuori dallo stabilimento, sotto forma di polverino (anche presente sulle tute da lavoro dei dipendenti che rincasavano), acque reflue contaminate e scarti di produzione, così non solo insidiando mortalmente la salute delle popolazioni ma anche inquinando pesantemente l’ambiente con ulteriore, nuova ricaduta sulla salute».


«Un atteggiamento – rincara Trevisan – di totale noncuranza verso l’uomo e verso l’ambiente, esclusivamente proteso al lucro e che mai si tradusse, nonostante l’entità della ricchezza prodotta e quindi delle disponibilità finanziarie possedute, nell’adozione di minimi provvedimenti... a tutela dei lavoratori, che la scienza e la tecnica dell’epoca già conoscevano».

 

Schmidheiny «decise di investire esclusivamente sul fattore produttività, perché gli era noto che, prima o poi, l’asbesto sarebbe stato bandito». Il suo principio fu insomma quello di «sfruttare il più a lungo possibile il materiale tossico prima del suo bando definitivo (o prima che fossero adottate restrizioni industrialmente sconvenienti)». Un atteggiamento, scrive il giudice Trevisan, «ben rappresentato» da un “manuale” pubblicato nel 1976 (Hauls 1976), spina dorsale della campagna di disinformazione orchestrata dallo stesso Schmidheiny, con cui si davano dettagliate istruzioni ai dirigenti locali della società per «fronteggiare il pericolo rappresentato dalle doglianze che all’epoca si facevano sempre più pressanti relative alla tossicità dell’amianto e per rintuzzare iniziative di stampa, opinione pubblica, cittadini e lavoratori».

 

«Pur consapevole della nocività del materiale», il miliardario svizzero voleva far passare il messaggio che la lavorazione industriale dell’amianto avrebbe potuto proseguire in sicurezza e che la campagna volta a proibirne l’impiego era in realtà portata avanti dai concorrenti per scopi di predominio economico dei mercati. Trevisan cita poi il cosiddetto “manuale Bellodi”, un testo elaborato dall’omonima società di pubbliche relazioni milanese su incarico di Schmidheiny che aveva lo scopo di salvaguardarlo da iniziative giudiziarie e di stampa finalizzate a chiedergli conto «delle conseguenze nefaste per la salute di lavoratori e cittadini arrecate dagli stabilimenti Eternit». Per allontanare da lui qualsiasi sospetto insomma.

 

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«D’altra parte – si legge ancora nella sentenza – l’imputato, prima della celebrazione dei processi a suo carico, si è sempre completamente disinteressato delle conseguenze disastrose e spesso irreparabili provocate dall’attività industriale» con l’amianto. In più, al momento della chiusura degli stabilimenti, le aree produttive furono abbandonate a loro stesse con il carico di veleni, spesso ancora a cielo aperto: Schmidheiny «mai provvide a contribuire alle necessarie opere di bonifica (se non quando furono assunte nei suoi confronti iniziative giudiziarie di natura penale) e… mai mostrò in alcun modo vicinanza o pentimento per le vittime dell’amianto, materiale che egli, callidamente e pervicacemente, continuò ad utilizzare in assenza di adeguate misure a tutela della salubrità degli ambienti di lavoro e della salute», conclude il giudice Trevisan.


Un comportamento che ha portato il Tribunale del capoluogo piemontese a ritenere l’aggravante della colpa “con previsione dell’evento”. Cioè della morte delle due persone oggetto del procedimento: Giulio Testore, ex operaio deceduto nel 2008 soffocato dall’asbestosi e Rita Rondano, una cittadina uccisa dal mesotelioma pleurico nel 2012 dopo essere stata esposta per anni alle polveri di asbesto per aver vissuto nelle immediate vicinanze della fabbrica di Cavagnolo e per aver svolto lavoro agricolo su un suolo contaminato da emissioni e contaminazioni d’amianto provenienti dallo stesso stabilimento.

E ora il processo di Novara
Contro la condanna a 4 anni, i difensori di Schmidheiny presenteranno ricorso alla Corte d’Appello. Dunque se ne riparlerà in un nuovo processo. Intanto però l’attenzione si sposta su Novara, dove a partire dal 27 novembre Schmidheiny sarà giudicato davanti ad una Corte d’Assise per omicidio volontario plurimo aggravato, in relazione a 392 casi di lavoratori e cittadini di Casale Monferrato morti a causa dell’amianto lavorato nella sede locale della multinazionale del cemento-amianto (che era la più grande in Italia). Fabbrica di cui, come per le altre tre facenti capo a Eternit Italia, il gruppo svizzero con alla testa Stephan Schmidheiny è stato l’effettivo responsabile della gestione tra la metà degli anni Settanta e la metà degli Ottanta. Un ruolo che gli sta costando un terzo processo a Napoli, dove pure è imputato per omicidio volontario per i morti della fabbrica di Bagnoli, e un quarto che si celebrerà a Reggio Emilia per le vittime della Eternit di Rubiera.

Pubblicato il

24.09.2020 16:28
Claudio Carrer

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