Tutto secondo copione a Quebec City, in Canada, dove da venerdì 20 a domenica 22 si è tenuto il terzo summit delle Americhe. Presenti tutti i paesi del continente, eccetto uno — Cuba, ovviamente — con il presidente Usa George W. Bush alla sua prima vera uscita internazionale (in febbraio fece una capatina in Messico per andarsi a fare una cavalcata insieme all’altro cow boy recentemente eletto, il presidente Vicente Fox); con una schiera di leader latino-americani succubi e proni — con qualche rara eccezione, come il brasiliano Cardoso e il cavallo pazzo venezuelano Chavez —; con un action plan conclusivo già scritto e prevedibile con dentro l’elenco e la soluzione di tutti i mali da cui è affetta l’America latina; con lo sbandieramento routinario della "clausola democratica"; con la città canadese posta in stato d’assedio da 20-25 mila manifestanti arrivati da tutto il continente — il "popolo di Seattle", divenuto per l’occasione hooligans- — che hanno cercato di sfondare quella specie di muro di Berlino innalzato dalle autorità per tenerli lontano dai leader, hanno protestato contro la globalizzazione e il neo-liberalisme e sono stati debitamente picchiati e arrestati dalla polizia locale. La Gran Familia of the Americas alla fine si è fatta fotografare sorridente, prima di tornare a casa più o meno "ottimista" (il più riguarda Bush, il meno Cardoso e Chavez) in attesa del prossimo vertice, fissato a Buenos Aires in data da destinarsi, e soprattutto della grande partenza, mantenuta per il 2005. Le cifre fanno paura. 800 milioni di persone — il 15% della popolazione mondiale — un prodotto lordo totale di 11 mila miliardi e 400 milioni di dollari, il 40% del Pil mondiale — 2 mila miliardi e 700 milioni di dollari di commerci reciproci. Il tutto in un immenso, unico e libero mercato "dall’Alaska alla Terra del Fuoco", o addirittura, in proiezione, "dall’Artico all’Antartide". Sarà il più grande blocco mondiale, anche se in molti fanno finta di non dare importanza al piccolo particolare che il 90% di quella massa quasi impronunciabile di miliardi ruota intorno agli Stati uniti. È il Ftaa, in inglese Free trade area of the Americas, ovvero l’Alca, in spagnolo Area de libre comercio de las Américas, che dovrebbe vedere la luce entro 4 anni. Gli Usa volevano anticipare i tempi e farlo partire dal 2003 sostenuti da alcuni paesi dell’America latina, Cile e l’Argentina in testa, così da impedire il consolidamento di un blocco regionale del Cono sud — il Mercosur, nato nel ’91 fra Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, con Cile e Bolivia come associati e il Venezuela come candidato — e bruciare definitivamente la concorrenza dell’Unione europea. La fedeltà del Cile post-pinochettista del presidente socialista Ricardo Lagos e dell’Argentina post-menemista del presidente Fernando de la Rua (anzi del super-ministro dell’economia Domingo Cavallo) è stata premiata con la promessa di portarli entrambi presto nel Nafta (ulteriore siluro al Mercosur). La stessa promessa fatta all’ormai docile e dollarizzato Centramerica il cui ingresso futuro nel Nafta non sarebbe altro per Bush che "la logica estensione" dell’Accordo di Libero Commercio fra Usa, Messico e Canada. A Quebec City il vero padrone di casa non è stato però il premier canadese Jean Chretien ma il presidente nordamericano George W. Bush. Quella di Bush jr. è una vocazione di famiglia. Fu papà Bush, nel 1990, a lanciare l’idea di unificare il continente americano in un unico grande mercato sotto la guida e il consenso di Washington. Bush sr. propose allora l’ Iniziativa per le Americhe poi ripresa dal suo successore democratico Bill Clinton che la formalizzò, con il nuovo nome di Ftaa-Alca, in un primo summit nel ’94, a Miami. Le ambizioni di Clinton rispetto alla totalità del continente si spensero di fronte alla diffidenza di alcuni partner latino-americani — a cominciare dal Brasile, "il gigante dell’America latina" poco propenso a farsi ingoiare senza batter ciglio —, alle ripetute e devastanti crisi finanziarie dei principali paesi a sud del Rio Grande, alle difficoltà interne agli Usa — sindacati, ambientalisti, organismi dei consumatori e dei diritti umani — che portarono nel ’94 alla fine della Fast track authority, i poteri speciali al presidente in materia di trattati commerciali, senza che il Congresso glieli abbia mai più rinnovati, finora. Il Fast track fu concesso dai deputati e senatori Usa a Bush padre e Clinton li usò per arrivare alla firma — per nulla facile — del Nafta, l’Accordo di Libero Commercio fra Stati uniti, Canada e Messico, entrato in vigore il primo gennaio del ’94. Non a caso lo stesso giorno in cui nel profondo sud messicano, nel Chiapas, fecero la loro irruzione gli indios zapatisti del subcomandante insurgente Marcos. Bush figlio ha fatto del vecchio sogno di papà uno dei suoi punti prioritari. Ma, come fu per Clinton dopo il ’94, il fatto di non essersi presentato ai suoi interlocutori latino-americani con il potere — che adesso ha cambiato nome e si chiama New trade promotion authority — per negoziare trattati commerciali senza che il Congresso li possa emendare (ma solo approvare o respingere in blocco), ha indebolito la presa di Bush a Quebec City. Lui giura che appena tornato a casa convincerà il Congresso a darglieli. Ma non è affatto scontato. Bush è arrivato in Canada sbandierando sulla faccia dell’America latina i numeri del Nafta: in 7 anni triplicato l’interscambio fra Usa e Messico, partito da 80 miliardi e arrivato oggi a 280 miliardi di dollari, e, soprattutto, capovolto il senso di marcia, ora nettamente favorevole al Messico. Ma i numeri non sono tutto. Il discorso, e i problemi, sono ben più ampi e complessi. La storica diffidenza dell’America latina, che un ventennio di democrazia formale e un decennio di neo-liberalismo selvaggio dei suoi leader non hanno cancellato; la crisi economica ma soprattutto sociale del Centroamerica e del Cono sud (come pure del Messico naftizzato), dove su 500 milioni circa di abitanti, almeno 220 milioni sopravvivono in condizioni di povertà relativa o critica; la concorrenza dell’Unione Europea che nel vertice di Rio de Janeiro del giugno ’99 ha lanciato la sua sfida per un’area di libero commercio con l’America latina a partire dal 2003, sostanziandola con un impressionante incremento degli investimenti (soprattutto dei re-conquistadores spagnoli che l’anno scorso, per la prima volta, hanno superato quelli statunitensi); i risultati tutt’altro che brillanti della dollarizzazione galoppante (oltre al Panamà, l’Ecuador, il Salvador e, prossimamente, il Guatemala); la tremenda crisi in cui è precipitata l’Argentina, di fatto dollarizzata dal ’91 da quello stesso guru del neo-liberalismo, Domingo Cavallo, che richiamato adesso per salvarla dalla bancarotta, gioca la carta d’azzardo dell’aggancio del peso non più solo al dollaro Usa ma anche all’euro; la resistenza attiva opposta dal Brasile, che — sostenuto dal Venezuela — preferisce "non mettere tutte le uova in un solo paniere" e tentare la rianimazione del boccheggiante Mercosur per poi trattare con la grande potenza del nord come blocco anziché buttarsi, paese per paese, nelle sue fauci. Per cui il terzo vertice delle Americhe non ha sciolto nessun nodo, limitandosi a una lunga serie di "impegni". L’apertura dei mercati a partire dal dicembre 2005; l’esclusione dalla Gran Familia del libero mercato dei paesi "non democratici" (cartellino rosso per Cuba, quindi: "Sarebbe bello che fosse qui, ma non è ancora pronta", ha detto il ministro degli esteri canadese John Manley); preoccupazione sulle elezioni "viziate" di Haiti e cartellino giallo per il presidente Jean-Bertrand Aristide (ma la "clausola democratica", così com’è intesa, non piace a molti dei latino-americani, a cominciare dallo stesso Messico troppo vicino al grande fratello, ed è sentita come una inammissibile interferenza); lotta alla povertà e alle ineguaglianze (poteva mancare?); migliore accesso all’educazione; promozione degli standard internazionali sul lavoro; rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali; guerra al "problema globale" della droga e dei crimini ad essa correlati; lotta all’Aids e ai suoi effetti; "passi" per proteggere l’ambiente (proprio mentre l’amministrazione Bush annunciava la defintiva sepoltura del Protocollo di Kyoto) e sostegno alle iniziative per le energie rinnovabili; garanzia della sicurezza e di condizioni decenti di lavoro per i migranti; condivisione delle conoscenze per diffondere la rivoluzione tecnologica. Scordato qualcosa? Non c’è bisogno di stare ad ascoltare, il grande escluso (ma incombente) Fidel Castro che dall’Avana ha ammonito i paesi latino-americani sui pericoli di "essere divorati dagli Stati Uniti" ricorrendo all’immagine dello "squalo che vuole mangiarsi le sardine". Bastano un Cardoso e un Fox qualsiasi. Un’area di libero mercato sarebbe "irrilevante o, peggio, indesiderabile se i paesi ricchi della regione non apriranno i loro mercati alle importazioni dei paesi più poveri", ha detto il brasiliano; "la democrazia nella regione non potrà essere rafforzata se la povertà e le ineguaglianze non saranno ridotte in America latina", gli ha fatto eco il messicano.

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27.04.01

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