Società e Giustizia

«Sono nato nel 1946 e già nel 1947, forse non avevo neanche un anno, mi hanno portato alla Culla San Marco di Faido. Non so perché, non so chi mi ci ha portato, ma lì sono rimasto fino all’età dell’asilo, quando mi hanno poi trasferito al Von Mentlen di Bellinzona», inizia così la storia di Riccardo, uno di quei bambini tolti alla famiglia e collocati in istituto “a scopo assistenziale” dalle autorità, che però non si sono mai preoccupate di verificare come stesse nei vari istituti nei quali ha vissuto. La sua storia e quella dei suoi fratelli non rappresentano dei casi isolati, in Ticino sono 150 le persone che si sono già fatte avanti per chiedere chiarimenti sulla loro infanzia e adolescenza e 103 si sono annunciate a Berna per ricevere il contributo di solidarietà destinato appunto alle vittime di misure coercitive a scopo assistenziale fino al 1981.


All’istituto Von Mentlen di Bellinzona Riccardo passerà gli anni dell’asilo, dai 3 ai 6 anni circa, non ricorda esattamente, finché un giorno un’educatrice gli comunica come un fulmine a ciel sereno che è arrivata sua madre (che lui non aveva mai visto prima) a prenderlo e nel giro di poche ore si è ritrovato “a casa”, in una famiglia di perfetti sconosciuti che viveva in condizioni di estrema povertà. «Quello è stato uno shock proprio – racconta –. Quando mi sono alzato al mattino non sapevo nemmeno di avere una mamma e a sera sono andato a dormire in quella che mi hanno detto essere la mia casa con quella che hanno detto essere la mia famiglia: una mamma, un papà, un fratello e una sorella maggiori (avevo altre due sorelle e un fratello, ma l’ho scoperto più tardi). In istituto almeno avevamo l’acqua, i servizi igienici, mangiavamo tutti i giorni. Lì invece niente: il gabinetto era nell’orto, l’acqua si doveva prendere al pozzo, mia mamma cucinava sul camino. Inoltre mio papà non mi poteva vedere, era sempre ubriaco e violento, mi sono spesso chiesto se fossi veramente figlio suo visto come mi trattava».


Riccardo le botte le aveva già assaggiate al Von Mentlen da alcune suore e ricorda anche un giardiniere che aveva tentato di abusare di lui, ma a casa la situazione non era migliore. Dopo Natale poté finalmente iniziare la prima elementare in paese e a giugno passò la classe, con la sorpresa e i complimenti dell’insegnante. La situazione familiare però era insostenibile, così qualcuno decise di allontanarlo nuovamente e venne messo al­l’istituto Santa Maria di Pollegio, dove «iniziò il disastro. Non so chi abbia deciso di mandarmi lì e perché, mio fratello invece fu messo al Canisio a Riva San Vitale. Avevo sei o sette anni e dopo tre ore che ero lì assistetti alla scena di un prete che gonfiava di botte un ragazzino: capii subito che ero finito in un postaccio». Per Riccardo il problema non era tanto essere stato allontanato da casa, dato che a casa sua non ci stava bene, ma essere stato messo in un posto almeno altrettanto malsano.
La violenza al Santa Maria era all’ordine del giorno e sono in tanti a testimoniarlo. Violenza fisica, sessuale e psicologica. Riccardo tiene a precisare che di abusi sessuali lui non ne ha subiti, ma di botte invece ne ha prese tante: «Erano in tre, due preti e un laico, ad essere violenti. Erano proprio cattivi, violenza gratuita, ci terrorizzavano. Uno dei preti poi è anche stato condannato a tre anni di prigione per undici abusi sessuali nel 1961, ma ne ha commessi molti di più nei dieci anni in cui è stato lì. E il peggio è che, almeno per quanto riguarda le botte, il direttore dell’istituto sapeva, non poteva non averlo mai visto, eppure nessuno faceva niente».


Sino alla fine della quinta elementare Riccardo è rimasto a Pollegio, poi gli è stato proposto di fare il garzone in un negozio a Bellinzona, dove gli avrebbero offerto anche vitto e alloggio. Pur di andarsene da lì Riccardo accettò, la situazione migliorò, ma il lavoro di garzone non gli piaceva e di tornare a casa non ne aveva voglia. Aveva una decina di anni.


Fortunatamente gli si presentò l’occasione di fare un apprendistato di falegname a Pollegio, dove avrebbe potuto dormire in istituto e stare fuori tutto il giorno per lavorare, ma il falegname passava direttamente i soldi all’istituto per il vitto e l’alloggio, così che a Riccardo non restava in tasca nulla e dopo qualche tempo il fratello lo convinse a tornare a casa, dicendogli che gli avrebbe trovato lui un lavoro. A quel punto scoprì l’esistenza delle altre due sorelle e del fratello maggiore.


Dopo un periodo in una fabbrica a Taverne, il fratello, che già lavorava in ferrovia, riuscì a fargli avere un posto alle Ffs a Bellinzona, da dove si trasferì poi a Zurigo: «Finalmente potei iniziare a vivere da solo e lì le cose migliorarono davvero. Un po’ di tempo dopo chiesi di essere trasferito a Chiasso, dove trovai alloggio presso una famiglia che affittava camere e ci rimasi dieci anni, stavo bene con loro e anche loro mi volevano bene». Finalmente Riccardo aveva trovato una stabilità e l’affetto di una famiglia. Conobbe la sua attuale moglie, si sposò ed ebbe due figli che, con orgoglio, dice di essere riuscito a far studiare. Poi si illumina letteralmente mentre parla dei suoi nipotini e dice: «È anche per loro che voglio sia fatta chiarezza su quanto succedeva quando ero bambino, affinché non ci sia il rischio che succeda a loro o ad altri bambini e giovani: non deve più succedere, assolutamente. Nessun bambino e nessun ragazzo deve vivere quello che abbiamo vissuto noi in quegli anni». In questo senso, un rimprovero Riccardo lo fa alle autorità ecclesiastiche e politiche di quel tempo, che sapevano e non sono intervenute subito lasciando che migliaia di persone portino ancora oggi i segni e le conseguenze di quanto subito in quegli anni.

Pubblicato il 

15.03.18
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