Nel momento in cui i rappresentanti del popolo svizzero dimostrano di rappresentare i padroni votando una legge che facilita i licenziamenti (e senza tante storie), i ricchissimi campioni dello sport dimostrano sempre più che la parola sindacato ha molti (troppi) significati. Intanto di questi tempi va di moda il “sindacato” dei miliardari che si contendono la “Coppa America” di vela. Meglio sarebbe “congrega”, “confraternita”, o più correttamente, tanto per evitare confusione, nome e cognome del proprietario e degli associati o più semplicemente della barca. Già ha fatto un danno terribile alla nobile causa dei sindacati, il triste connubio fra certi gruppi di lavoratori statunitensi e la mafia, lei stessa unita in una specie di “sindacato”, con tanto di organigramma e tanto di “operai” incaricati di far sparire nelle colate di cemento i sindacalisti (quelli veri). Per tornare al punto di partenza, lo sport, il discorso non è facile. I vari sindacati, dei calciatori per esempio, si trovano a difendere gente da 5-10 milioni di euro l’anno assieme a gente che guadagna meno di un operaio specializzato in serie C o D e dipende sovente da un padroncino di provincia arricchito da qualche “affare” andato in porto e voglioso di gloria personale. In questo caso il calciatore ha sovente meno diritti di un normale impiegato: qualsiasi presidente da avanspettacolo (tipo Gaucci del Perugia) lo può licenziare con qualsiasi scusa: magari sostenendo che non sa fare il suo mestiere perché la squadra non vince o non manda la palla in rete. Il sindacato nello sport ha ragione di essere, ma non fa il suo mestiere. Schiavo della filosofia del tempo, il primato del “mercato” che regola tutto in modo automatico, non è capace di togliere qualche briciola a Beckham, Ronaldo, Del Piero e Co. per darli ai “barabitt” che arrivano a 30 anni senza arte né parte a metà del guado fra fallimento “sportivo” e “professionale” in senso lato, non avendo imparato altro. Questi ultimi inoltre sono ricattabili in mille modi, per esempio pagando le mensilità in netto ritardo o non pagandole del tutto; e per sopravvivere, per spuntare un ultimo ingaggio, la tentazione del doping si fa molto forte. Nel frattempo i privilegiati mettono in mostra protervia e arroganza e pretendono l’impunità. Come in Inghilterra quando il difensore più pagato della storia del football, Les Ferdinand, si è rifiutato di sottoporsi a un controllo antidoping: di fronte a una possibile squalifica i compagni della Nazionale hanno minacciato di non disputare un incontro valido per la qualifica agli Europei. Solo dopo molte difficoltà il “sindacalista” Gary Neville del Manchester ha capito che la posizione della “lobby” dei campioni era insostenibile. E solo pochi giorni fa l’allenatore dell’Inghilterra Eriksson ha dato torto a Ferdinand: a qualificazione raggiunta...

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12.12.03

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