Intervista a Renzo Ambrosetti

«Certamente, nel giugno di 37 anni fa non immaginavo di finire dove sono finito. Ci ho messo molto del mio, ma ho anche avuto la fortuna di poter sempre contare sull'appoggio e sulla fiducia di militanti e collaboratori». Renzo Ambrosetti, 62 anni il prossimo 30 agosto, una vita intera dedicata al sindacato e in buona parte in veste di dirigente, con incarichi di primo piano a  livello nazionale e internazionale, racconta così, a poche settimane dal pensionamento, la storia di una carriera brillante.

Una storia iniziata proprio qui in Via Canonica 3 a Lugano, negli spazi all'epoca sede del sindacato Flmo oggi occupati dalla redazione di area, dove lo incontriamo per questa prima intervista da ex copresidente di Unia, il sindacato di cui è stato artefice e che ha diretto fino a pochi giorni fa.  «Sono soddisfatto di cioè che sono riuscito a realizzare.  Lascio un'organizzazione solida, sia per numero dei membri, sia per l'aspetto finanziario, sia in termini di capacità di mobilitazione. Certo su quest'ultimo aspetto c'è ancora da migliorare, ma oggi Unia è un soggetto con cui si devono fare i conti nella realtà sociale e politica svizzera».

 

 Si può affermare che con la rinuncia alla formula della copresidenza a favore della presidenza unica si è concluso definitivamente il processo di fusione tra le vecchie organizzazioni sindacali che 10 anni fa portò alla nascita di Unia?

Sì. La copresidenza è stata uno strumento prima per facilitare il processo di fusione e in seguito per consolidare il nuovo soggetto e per accompagnare il cambio generazionale in seno alla direzione. Una direzione con un'età media inferiore ai 50 anni, una rarità nel panorama sindacale nazionale e internazionale.

 

Come ti sei preparato alla pensione?

Non ho avuto il tempo di farlo.  L'agenda è stata colma fino alla fine. Anzi, continuerà a esserlo. Anche se non parteciperò più ai lavori degli organi sindacali, manterrò gli incarichi a livello internazionale fino alla fine del 2016; continuerò inoltre a occuparmi della gestione immobiliare per Unia e per l'Uss curerò la formazione dei membri delle commissioni tripartite cantonali; in Ticino continuerò a dirigere l'Aic (Associazione interprofessionale di controllo) e a occuparmi delle commissioni paritetiche. Insomma, se finora ho corso a 150 chilometri all'ora da pensionato correrò a 80...

 

La decisione di continuare a lavorare è una scelta tua o un bisogno dell'organizzazione?

In realtà non ho dovuto prendere alcuna decisione: vedo la cosa come un percorso naturale per un sindacalista, che più di un mestiere è una scelta di vita.

 

Come è nato l'amore per il sindacalismo?

Il sindacato è nel Dna della mia famiglia, visto che mio padre era ferroviere e attivista sindacale del Sev. Dal punto di vista professionale, la carriera sindacale inizia subito dopo gli studi in diritto. Come persona di sinistra, non mi andava l'idea di seguire la strada dell'avvocatura intrapresa da molti compagni di studi figli di famiglie borghesi benestanti. Decisi così di candidarmi per un posto alla Flmo, che cercava un giovane da preparare in vista della successione dell'allora segretario cantonale Alfredo Bernasconi. Le cose andarono in fretta: più o meno di questi tempi nel 1978 iniziai proprio qui in Via Canonica 3...

 

Come hai scoperto le doti di dirigente?

Abbastanza presto: già da adolescente avevo assunto posizioni di responsabilità in ambito associativo, il che mi permise tra l'altro di dare sfogo a un innato spirito di servizio e di solidarietà verso l'altro.

 

 

Quanto diverso era il mondo del lavoro con il quale ti confrontavi da giovane sindacalista rispetto a quello odierno?

Era tutto molto più semplice, a partire dalle relazioni con le associazioni padronali: si era in pieno boom economico e le trattative per i rinnovi contrattuali si aprivano e si chiudevano con una telefonata, mentre i contenziosi con i datori di lavoro (per esempio per un licenziamento) si risolvevano attraverso il contatto diretto, senza ricorrere ad avvocati, denunce e contro-denunce. Poi, con la globalizzazione e il nuovo contesto economico generale, le cose sono cambiate: negli anni Novanta diverse importanti  aziende svizzere sono state vendute e ci siamo trovati di fronte a manager stranieri paracadutati, senza alcun contatto con la realtà locale e riluttanti al dialogo con la controparte sindacale e ai contratti collettivi, che vengono visti come un intralcio al raggiungimento dei loro obiettivi. È così che il partenariato sociale ha cominciato a traballare e, complice la sempre più debole rappresentatività delle organizzazioni padronali, a entrare in crisi. Oggi viviamo una situazione di degrado nel confronto col padronato: è ormai venuto meno il rispetto della parola data, degli accordi, alla fine delle persone che ormai vengono considerate merce. Questo è il più grande cambiamento che ho vissuto in 40 anni di sindacalismo.

 

Il sindacato ha saputo reagire per tempo ai cambiamenti epocali legati alla globalizzazione?

La risposta alle nuove sfide è stata per certi versi tardiva. Ma con la creazione di Unia e la sua scelta di entrare in un settore scarsamente sindacalizzato come il terziario abbiamo compiuto un passo importante nella direzione giusta.

 

Che fare affinché le persone non siano trattate come merci?

Va fatto un grande lavoro di persuasione sull'importanza della solidarietà tra i salariati e sulla centralità di una difesa collettiva dei diritti attraverso il sindacato. E ci sono alcuni segnali positivi di una crescente presa di coscienza che da soli non ce la si può fare.

 

E per riportare il padronato al confronto?

La prima cosa da fare sarebbe spiegare alla nuova generazione di manager (totalmente ignorante in materia) il significato di partenariato sociale, che non è "vogliamoci tutti bene”,  ma confronto, anche scontro e conflitto, alla ricerca di una soluzione. Una soluzione che se viene trovata, poi va rispettata da tutti. Credo che il dibattito sul futuro delle relazioni con l'Unione europea a seguito del voto del 9 febbraio 2014 sull'iniziativa "contro l'immigrazione di massa” sia il vero banco di prova. Se il padronato continuerà a manifestare chiusura totale di fronte all'idea di adottare nuove misure a tutela dei lavoratori e del mercato del lavoro, metterà a rischio l'accordo sulla libera circolazione e tutti gli accordi bilaterali con l'Ue. Se questo dovesse decadere la via sarebbe quella suggerita da Blocher: un semplice accordo di libero scambio senza misure di protezione dei lavoratori, che porterebbe ad un sicuro impoverimento della Svizzera. Se non capiscono questo...

 

Da pensionato pensi di tornare a fare politica attiva o è un capitolo chiuso?

Ho iniziato molto presto e alla fine del secolo scorso ho deciso di lasciare la politica. Definitivamente. Anche nei partiti ci vogliono rinnovamento e forze giovani e il Partito socialista ticinese ne ha particolarmente bisogno.

 

Come valuti il feroce confronto scatenatosi nel Ps dopo la sconfitta elettorale di aprile?

Vedo un po' di esasperazione della sconfitta e una pericolosa rincorsa della Lega sulla questione europea, cosa che mi preoccupa.  Nel partito non c'è più formazione politica  e il confronto interno è venuto meno. Vedo un ricorso eccessivo a Twitter e Facebook. Sarò all'antica, ma per me la politica si fa nelle piazze e nei consessi deputati. È forse anche per questo che non m'interessa più.

 

Negli ultimi anni non sei mai più stato tentato di tornare in politica, magari correndo per una carica a livello nazionale?

Mi sono state fatte del proposte, prima della nascita di Unia e anche recentemente, ma ho rifiutato. Al giorno d'oggi il presidente di un sindacato come Unia non può permettersi di assumere incarichi istituzionali.

 

È utile per il sindacato essere presente nel parlamento federale?

Almeno un membro della direzione nazionale dovrebbe farvi parte. La presenza di Corrado Pardini ci ha consentito di trarre qualche vantaggio nell'ambito delle relazioni con la politica. Non è un caso che anche da questo ambiente giungano appelli per una maggiore presenza di rappresentanti dell'economia.

 

Pur avendo lavorato molti anni a Berna, non ti sei mai allontanato dal Ticino...

Sì. Ho sempre mantenuto contatti stretti e una serie di funzioni in Ticino. È stata una scelta giusta. Quando si hanno radici nel territorio, si capiscono meglio i problemi.

 

Come ticinese ti sei sempre sentito rispettato?

Non ho mai avuto problemi. Certamente mi ha aiutato il fatto di parlare lo Svizzero tedesco e il francese, ma probabilmente anche di essere sempre stato visto come una figura d'integrazione, di mediazione.  

È questa la tua dote più spiccata?

Molti dicono così. Sicuramente certe caratteristiche mi hanno permesso di fare la carriera.

 

 

 

 

 

La carriera

Nato il 30 agosto 1953 a Bodio, Renzo Ambrosetti dopo gli studi in diritto a Zurigo, entra nella Flmo Ticino nel 1978, nel 1991 ne diventa segretario cantonale. Nel 1994 entra -come primo ticinese- nel Comitato direttivo nazionale, nel 1995 diventa Segretario centrale e nel 2000 presidente nazionale Flmo.

In questa veste svolge un ruolo di primo piano nella fusione con il Sei che nel 2004 darà vita a Unia: insieme a Vasco Pedrina ne assume la co-presidenza. Carica che mantiene, successivamente al fianco di Andreas Rieger e poi di Vania Alleva,  fino al 20 giugno di quest’anno.

A livello internazionale, nel 2007 viene eletto presidente della Federazione europea dei metallurgici e nel 2012 vicepresidente di IndustriALL, la più grande federazione sindacale (oltre 7 milioni di membri).

Fa politica nel Partito socialista ticinese e svizzero, ricoprendo divrese cariche tra cui quella di granconsigliere tra il 1987 e il 1999.

Pubblicato il 

02.07.15
Nessun articolo correlato