Dietro lo specchio

La recente presa di posizione della Segreteria di Stato dell’economia (Seco) sulle società partner di Uber (ne riferiamo a pagina 8), ha fatto un po’ di luce su un contesto lavorativo molto lucrativo, poco regolamentato e in cui vige precarietà, nei sensi dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil); ovvero quando “lo status occupazionale fornisce un basso livello di sicurezza del posto di lavoro e non influisce in modo significativo sulla struttura concreta della situazione lavorativa; la protezione legale è scarsa e le possibilità di avere un sostentamento materiale sono piuttosto scarse”. Tradotto: quando il lavoro è saltuario e non garantito nel tempo, il lavoratore non può influire sulle condizioni di lavoro, le condizioni contrattuali sono vaghe, la remunerazione non basta per sbarcare il lunario.

 

V’è molta enfasi sul potenziale dirompente della digitalizzazione per il rilancio dell’economia e del lavoro. Fra gli atout c’è il “crowdsourcing”, un neologismo coniato nel 2006 da Jeff Howe, caporedattore del prestigioso Magazine Wired, che associò i concetti Outsourcing e crowdfunding. Howe definì il crowdsourcing come “atto di assumere un lavoro tradizionalmente svolto da un collaboratore dipendente e di esternalizzarlo a un gruppo indefinito, generalmente ampio, sotto forma di chiamata aperta”. Oltre 10 anni sono trascorsi, tuttavia, e sorprendentemente, poco o nulla si sa sulle realtà del crowdsourcing. A fare un po’ di luce è “Work In The European Gig Economy”, una recente inchiesta patrocinata dal parlamento europeo, svolta in sette paesi: Gran Bretagna, Svezia, Germania, Austria, Olanda  Italia e anche la Svizzera. Vi si apprende che una crescente percentuale di persone (freeland, consulenti, studenti, lavoratori part-time e anche pensionati) ammette di essersi procurata lavoro da sé tramite una piattaforma online tipo Uber o tipo Myhammer o Taskrabbit. Un dato emerge sopra tutti: in Svizzera circa 210.000 persone (pari al  3,5% della popolazione attiva) dichiara di ricavare più del 50% del proprio reddito mediante il crowdwork; 5,1 in Italia, 2,7 in Svezia e Gran Bretagna, 2,5% in Germania, 2,3 in Austria e 1,6 in Olanda. Molti degli intervistati ammettono di aver optato per il crowdworking in mancanza di altre opzioni, non come scelta di vita.


A leggere le argomentazioni se ne comprendono le ragioni. Molte lamentele riguardo l’organizzazione e le condizioni di lavoro: stress, problemi di comunicazione con i responsabili della piattaforma, decisioni arbitrarie, percezione che le piattaforme sostengano solo gli interessi dei clienti, a svantaggio dei lavoratori, oltre che modifiche frequenti dei sistemi di pagamento. Affiora da parte degli intervistati la percezione di mettere a rischio la propria salute fisica e psicosociale, per le lunghe ore di lavoro, inclusi interminabili e imprevedibili periodi di attesa non pagati. Infine, e non certo di poco conto, la segnalazione di rischi sociali, tra cui molestie sessuali, pressioni psicologiche per svolgimento di compiti che riguardano attività dubbie. Insomma, il crowdworking ripropone forme di contratto che ricordano quelle del primo ’800 con lavoratori disorganizzati e senza rappresentanza sindacale – a quei tempi inesistente e proibita – costretti ad accettare qualsiasi cosa pur di sopravvivere; variante “moderna e tecnologica” ed invisibile dello sfruttamento dove i crowdworker attendono che i “caporali della rete” li scelgano per qualche ora di lavoro giornaliero, per poi ricominciare da capo l’indomani. Il vuoto giuridico, reso ancora più difficile da colmare per l’assenza di una regolamentazione globale tra i vari Stati, dà ampio margine di manovra e di libero arbitrio alle varie piattaforme, che offrono sì occupazione ma al caro prezzo della precarietà economica e sociale.

Pubblicato il 

29.03.18
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