Sergio Ermotti, presidente di Ubs, a suon di trombe sui principali quotidiani svizzeri, parte all’attacco duro contro il governo federale e si propone salvatore della patria.


Chi rappresenta l’istituto che ha contribuito a procurare il maggior disastro politico-finanziario dell’ultimo mezzo secolo, chi è stato salvato sull’orlo del baratro dalle istituzioni del paese e dai contribuenti, chi ha continuato a dare un’immagine mefitica del sistema bancario-finanziario svizzero, soprattutto all’estero, può ergersi a censore del paese, delle sue istituzioni, della sua politica e proporsi come guida seria e credibile?
La risposta è no. Non perché si sollecita un ricupero del senso della vergogna o del buon senso che non esistono più, sostituiti dalla sicumera e dall’arroganza. Per due altri motivi. L’uno, che sosteniamo ormai da anni: perché siamo di fronte alla prova provata che la politica va ritenuta serva dell’economia-finanza. L’altro: ciò che si offre in critiche è paradossalmente la rappresentazione dei propri comportamenti scorretti passati e presenti; ciò che si propone come nuova strategia è ripetitiva filastrocca, recita fuori tempo.


Il “patron” di Ubs critica, senza troppa diplomazia, il Consiglio federale (neppure un minimo di “riconoscenza”, non fosse che per gli aiuti ricevuti e per le ore sacrificate nelle infinite peregrinazioni all’estero per salvare anche i cavoli di Ubs)). Il quale «deve assumere con coraggio e determinazione il suo compito di indirizzo politico ed economico». Il Consiglio federale è debole, titubante, non sa «comunicare con chiarezza che ha identificato i problemi e ha la ferma intenzione di prendere una serie di misure, più in fretta possibile». Sembra che Ermotti abbia a sua volta qualche titubanza sulla democrazia, forse perché lenta, portata a discutere e a comporre sui tempi lunghi, poco decisionista. Dice infatti: «dobbiamo ispirarci agli Stati forti e competitivi, anche se fuori Europa»; «bisogna rinunciare una volta tanto al consenso ad ogni costo». Uno Stato forte, preoccupato del bene comune, non permetterebbe quello che si son permesse le banche e la finanza. Non è quindi ciò che vuole Ermotti. Lo vuole invece “competitivo” che significa, nella pratica, poter anteporre l’economia o la finanza ad ogni considerazione umana o di giustizia. Che sia la Cina, il modello? Un tempo l’aveva dichiarato proprio un alto funzionario dell’Ubs.


In che cosa consiste la “strategia per assicurare la prosperità della Svizzera”? È presto detto, scorrendo i “cinque pilastri” suggeriti: meno fisco perché annega competitività e profitti, meno regole perché sappiamo autoregolamentarci (come s’è visto), meno lungaggini democratiche perché creano ostacoli al cambiamento, meno velleità di sinistra perché demoliscono il buon sistema svizzero (vedi imposta sulle successioni, diritto della società anonima, imposte sui guadagni di capitale, imposizione delle imprese, diritto del lavoro e pretese salariali anticompetitivi).


Scrive Ermotti: «L’ora è al rinnovamento e tuttavia nessuna velleità di cambiamento o quasi sta apparendo». Almeno qui bisogna dargli ragione.
Vilfredo Pareto, un economista del secolo scorso, insegnante a Losanna, che non dispiacerebbe agli ambienti bancari, scriveva «Dare l’impressione di trasformarsi per non essere distrutti ... è come darsi la morte per scansare di averla da altri». Non sarà proprio così ma ci siamo vicini.

Pubblicato il 

04.03.15
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