Sentenza che puzza di vendetta

La Catalogna brucia? La Spagna ancora alle prese con il “problema catalano”? No. È la Spagna che brucia. E il problema catalano è il “problema spagnolo”.


Tutto secondo copione. Era annunciata la sentenza del 14 ottobre, a meno di un mese dalle nuove elezioni politiche del 10 novembre, con cui il Tribunale supremo ha condannato l’ex-vicepresidente della Generalitat Oriol Junqueras (Erc, Esquerra Republicana de Catalunya) e altri otto leader indipendentisti a pene abnormi fra i 9 e i 13 anni per i reati di sedizione e malversazione nell’organizzazione del referendum sull’indipendenza del primo ottobre 2017. Era attesa anche la furente, e per la prima volta violenta, reazione di Barcellona e della Catalogna.


Ai condannati, alcuni dei quali  – incredibilmente – in carcere preventivo da due anni, pare sia andata anche bene. Se la condanna era scontata il Tribunale è stato così indulgente da applicare il reato di sedizione – pena massima 15 anni – e non quello, reclamato dalla destra e da gran parte dei media, di ribellione –pena fino a 25 anni. «Una indulgenza feroce», l’ha definita qualcuno con acida ironia.


Nessuna ironia. Di nuovo muro contro muro. Incomunicabilità fra Madrid – anche se al palazzo della Moncloa risiede ora il “compagno” socialista Pedro Sánchez e non più il “popolare” Mariano Rajoy, la vittima più illustre del “problema catalano” –  e Barcellona.  


Da quando il 3 ottobre 2017, due giorni dopo il referendum, il re borbonico Felipe si presentò in tv con un intervento ultrà, la linea era chiara: non si fanno sconti. Articolo 155 ossia commissariamento della Catalogna, arresti a raffica, accuse pesantissime nonostante che il “procés” verso la “independencia exprés”, per quanto e al limite della legalità,  fosse stato pacifico e democratico.


Due anni dopo più che di giustizia la sentenza puzza di vendetta politica. Un conflitto politico risolto per via giudiziaria (risolto?). La linea oltranzista dell’establishment (destra, ma non solo) vuole mandare un messaggio chiarissimo ai 2 milioni di catalani – non la maggioranza ma pur sempre il 43% – che l’1 ottobre 2017 votarono sì all’indipendenza ma anche oltre: a qualsiasi minoranza della “España plural” che sul piano politico, sociale, economico, culturale, regionale, di genere osi mettere in discussione il centralismo borbonico, “Madrid”. Che sfidi, immagine efficace, “l’egemonia del re e del toro”.


E adesso? Il 10 novembre si torna alle urne. Quarta volta in quattro anni. È possibile che il “problema catalano” abbia un peso forse decisivo nell’esito del voto.
Pedro Sánchez, responsabile unico del mancato accordo con Podemos per formare il primo “governo di sinistra” dalla fine del franchismo, lo sa e si muove con i piedi di piombo. Respinge le ingiunzioni  di Pablo Casado, Partido Popular, e di Albert Rivera,  Ciudadanos, a fare sfracelli manu militari in Catalogna, dice di perseguire una politica di «moderazione» pur essendo «pronto a tutto».


I sondaggi lo danno ancora vincente, ma lontano dalla maggioranza delle Cortes in un parlamento che si annuncia ancor più frammentato e quindi più difficile. Dovrà cercare di nuovo l’appoggio di Podemos anche se in tutta evidenza la sua linea vorrebbe essere quella di negare l’esistenza di una forza politica alla sinistra del Psoe e di tornare al bel bipartitismo d’antan, o magari a una “grosse Koalition” con il Partido Popular in nome della stabilità.


Ma i tempi cambiano. Il bipartitismo imposto dalla costituzione del 1978 non regge più. Nel 2015 ha fatto irruzione Podemos e nel 2019 la rampante destra fascio-franchista di Vox.   


Sánchez punta sull’attendismo e “la moderazione” con qualche gesto simbolico come l’esumazione, annunciata per giovedì  scorso, della salma del dittatore Franco dal suo mausoleo nella insultante Valle de los Caidos.
Ma i gesti simbolici, oltretutto con 40 anni di ritardo, non bastano più. E “il problema catalano” non sarà risolto da una vendetta politica per via giudiziaria.

Pubblicato il

24.10.2019 14:48
Maurizio Matteuzzi
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