Dopo l’attacco del 2008, al suo ritorno da un viaggio a Gaza, l’arcivescovo sudafricano e premio Nobel per la pace Desmond Tutu aveva dichiarato: «Il mondo non può chiudere gli occhi sulla tragedia di Gaza, perché se la verità fa male, il silenzio uccide». Per lottare contro questo silenzio e per denunciare l’ennesimo attacco israeliano, molteplici voci si sono alzate nelle ultime settimane. Sono le voci di intellettuali, artisti, sindacalisti e operai. Tra loro quelle degli attori Javier Bardem e Penelope Cruz e del regista Pedro Almodóvar che hanno firmato un appello chiedendo a Israele di mettere fine al «genocidio». Per risposta hanno ricevuto una pioggia di critiche da chi li ha definiti nella migliore delle ipotesi degli ignoranti e nella peggiore degli antisemiti. Ma che cosa vuol dire genocidio? Usare questo termine per definire la politica israeliana a Gaza è davvero da ignoranti antisemiti?

 

Secondo la Convenzione per la repressione del genocidio del 1948, firmata da 149 Stati tra cui Israele, si può parlare di genocidio alla presenza di tre elementi. Il primo è la commissione di atti come l’omicidio, lesioni gravi o l’imposizione di condizioni di vita che possono portare alla distruzione fisica totale o parziale di un gruppo. Il secondo è che questi atti siano diretti contro un gruppo «nazionale, etnico, razziale o religioso». Il terzo è l’«intenzione di distruggere in tutto o in parte» il gruppo vittima delle violenze.

 

L’attacco israeliano “Margine protettivo” è certamente diretto contro un gruppo nazionale e, almeno in parte, religioso. Per quanto riguarda gli atti di violenza, secondo il Centro palestinese per i diritti umani dall’inizio dell’attacco israeliano sono morti almeno 2122 palestinesi. Il 77% delle vittime erano civili e 507 erano minorenni. Israele ha volontariamente colpito scuole, campi profughi e almeno 72 edifici residenziali. I suoi militari hanno mitragliato ambulanze uccidendo infermieri (25 luglio, Beit Hanoun), lanciato missili uccidendo giornalisti (19 luglio, a-Shujai'yeh) e civili che fuggivano con le mani alzate e sventolando una bandiera bianca (25 luglio, Khuza’a). Dalla parte opposta invece sono morti 64 soldati israeliani e quattro civili, tra cui un minorenne. Perché sia un genocidio serve però la volontà di distruggere, almeno in parte, il gruppo vittima delle violenze. Se il primo ministro Benjamin Netanyahu ha sempre celato una simile volontà, persone a lui vicine sono state meno prudenti. Il ministro degli esteri, Avigor Lieberman, ad esempio quando ha dichiarato che Israele doveva comportarsi a Gaza come gli Stati Uniti fecero in Giappone così che «dopo non sarebbe più nemmeno necessario occupare», un chiaro riferimento alle bombe atomiche che nel 1945 uccisero oltre 200.000 civili.

 

Il deputato Moshe Feiglin, del partito di governo, che ha invece proposto di «concentrare» i palestinesi in «campi», in attesa di farli «emigrare» per fare «della città di Gaza e dei suoi dintorni una vera città turistica israeliana». O ancora la giovane deputata Ayelet Shaked, che considera «tutto il popolo palestinese nemico di Israele», compresi quindi «i suoi anziani e le sue donne» che sarebbero colpevoli di mettere al mondo dei «piccoli serpenti». Sempre secondo Shaked i sostenitori di Hamas devono essere considerati «combattenti nemici e il loro sangue dovrà ricoprire le loro teste». In poche ore su Facebook le sue parole hanno raccolto 5000 “mi piace”. Intanto su Twitter decine di adolescenti israeliane pubblicavano dei selfie accompagnati da slogan come “uccidere i bambini arabi per evitare una nuova generazione” (@ashlisade) o “odiare gli arabi non è razzismo ma un precetto divino” (@almasulin82). La volontà di distruggere il popolo palestinese è quindi sempre più presente tanto tra i politici quanto tra una parte crescente dell’opinione pubblica israeliana. Per quanto la verità faccia male, dobbiamo rompere il silenzio. A Gaza è in atto un genocidio.

Pubblicato il 

27.08.14

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