Schmidheiny condannato a 18 anni

«In nome del popolo italiano, la Corte di appello ha pronunciato la seguente sentenza...». Sono le 15.29 quando il giudice Alberto Oggè incomincia la lettura del verdetto. L'aula è gremita in ogni ordine di posto, la tensione è palpabile: tra i familiari e i rappresentanti delle associazioni delle vittime giunti in massa a Torino è diffuso il timore che qualcosa possa andare storto, che in pochi minuti si vanifichino anni di battaglie per la giustizia. E le prime parole di Oggè (che fa riferimento a una «parziale riforma» della sentenza di primo grado e a un’assoluzione «per non aver commesso il fatto» in ordine a una parte delle accuse), complici anche le difficoltà per un profano del diritto di comprendere il linguaggio tecnico-giuridico, non fanno che accrescere la paura.

 

La sostanza della decisione diventa chiara a tutti i presenti solo una manciata di minuti dopo, quando Oggè dichiara «la penale responsabilità di Schmidheiny Stephan» e comunica la pena inflitta: «18 anni di reclusione», due in più rispetto al primo grado.

Dalla tribuna del pubblico si leva un profondo sospiro collettivo di sollievo, ma nulla di più: nessun applauso, nessun commento a voce alta. In aula continua a regnare un rispettoso silenzio, rotto solo dal rumore degli scatti di decine di macchine fotografiche che immortalano gli occhi lucidi, i visi bagnati dalle lacrime, le strette di mano, gli abbracci, gli sguardi che s'incrociano.

Per i familiari delle vittime è una tempesta di emozioni, che si fa ancora più “violenta” e dolorosa quando il giudice dà inizio alla lettura dei nominativi delle 932 vittime a cui la Corte ha riconosciuto il diritto di ottenere immediatamente un risarcimento dall'imputato Schmidheiny per i danni derivanti dal suo comportamento criminale (per le altre vittime la decisione è invece rinviata al foro civile). Un comportamento che ha mandato a morte donne e uomini, lavoratori e cittadini di tutte le generazioni, come già si evince dalle date di nascita delle prime vittime elencate da Oggè: «Agnani Emanuela, nata il 12 luglio1943; Agnani Fernanda, nata il 2 luglio 1938; Agnani Giovanni, nato il 10 maggio 1946; Aimo Enzo, nato il 27 marzo 1961; Aimo Mariarosa, nata il 4 febbraio 1960; ...».

 

La lettura della sentenza è stata preceduta da una lunga giornata di attesa, iniziatasi già di buon mattino: erano passate da poco le 9 quando l'esterno e l'interno del mastodontico Palazzo di giustizia torinese già cominciavano ad affollarsi di pubblico, giornalisti, cineoperatori e poliziotti chiamati a garantire l'ordine e la sicurezza in questa giornata speciale.

 

Alle 9.30 era in agenda l'ultima brevissima udienza del processo prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio per la stesura della sentenza: si è trattato solo di formalizzare l'uscita di scena di uno dei due imputati, il barone belga Jean Louis de Cartier deceduto il 21 maggio scorso all'età di 92 anni, attraverso una verifica dell'autenticità e della conformità del certificato di morte.

 

Pochi minuti prima era giunto un primo nutrito gruppo di persone da Casale Monferrato, la cittadina in provincia di Alessandria già sede del principale stabilimento Eternit italiano dove i morti d'amianto hanno già superato quota 2.000 e dove ogni anno si contano ancora oggi più di cinquanta decessi. Dal bus scendono i protagonisti delle grandi battaglie operaie e sociali che questa comunità porta avanti da oltre trent'anni: ci sono i sindacalisti Bruno Pesce e Nicola Pondrano (che all'Eternit ci ha pure lavorato) e naturalmente la carismatica e combattiva presidente dell'Associazione famigliari delle vittime dell'amianto (Afeva) Romana Blasotti-Pavesi, simbolo vivente dell'immane tragedia prodotta da quella fabbrica maledetta. Lei, a causa della fibra killer dispersa negli ambienti di lavoro e di vita a Casale, ha perso cinque famigliari: il marito, la sorella, un nipote, un cugino e la figlia. Oggi, per la prima volta, prova un sentimento di «paura»: «Sono fuori di me. È la prima volta che mi capita durante questo processo. Cerco di non pensarci e di far passare il tempo che ci separa dal momento della verità chiacchierando con voi e con i miei compagni di lotta. Una lotta dura e sofferta che insieme portiamo avanti da oltre trent'anni», spiega.

 

L'attesa sarà ancora lunga, ma il tempo corre via veloce, complice forse il gran trambusto che si crea dentro e fuori il Palagiustizia. Arrivano altri sette pullman con a bordo cittadini di Casale: tra loro moltissimi giovani, consapevoli che in futuro toccherà a loro portare avanti la battaglia di questa comunità falcidiata dall'amianto ma che non si arrende all'ingiustizia e alla prepotenza di imprenditori senza scrupoli che nel nome del profitto hanno deciso la condanna a morte di migliaia di persone. Ognuno di loro porta sulle spalle la bandiera tricolore con la scritta “Eternit giustizia” e tiene appesa al collo una targhetta che ricorda l'ultima vittima dell'Eternit, Paola Chiabrotto, morta di mesotelioma poche settimane or sono a soli 36 anni. Una storia, la sua, che ben descrive le dimensioni della strage prodotta dai padroni dell'Eternit: non aveva mai lavorato in fabbrica, si era trasferita a Casale Monferrato da adulta ed era nata una settimana dopo che Stephan Schmidheiny aveva dichiarato di aver realizzato il “risanamento ambientale”... . A Torino c'erano poi studenti, lavoratori e cittadini provenienti da altre località italiane e numerose delegazioni straniere dalla Francia, dal Belgio e dalla Svizzera. Per il nostro paese era presente un nutrito gruppo del Comitato d'aiuto e di orientamento alle vittime dell'amianto (Caova), che all'entrata del Palazzo di giustizia ha esposto uno striscione con un messaggio eloquente per un paese in cui i processi per la strage dell'amianto non è nemmeno possibile celebrarli a causa delle norme in materia di prescrizione: “Signor Schmidheiny, l'attendiamo anche in Svizzera”.

 

In Svizzera Stephan Schmidheiny rimarrà anche in futuro al riparo da ogni guaio giudiziario, ma questo non toglie nulla all'importanza che la sentenza di Torino riveste sul piano internazionale, come sottolinea a caldo il portavoce del Comitato vertenza amianto Bruno Pesce: «Si tratta di una decisione destinata a pesare a livello planetario perché obbliga a riflettere sulla qualità dello sviluppo industriale in Italia e nel mondo. Bisogna smettere di fare profitti sulla pelle dei lavoratori e dei cittadini. La conferma del reato di disastro ambientale doloso è la cosa a cui noi tenevamo di più. Schmidheiny sapeva di mandare la gente a morire, ma in nome degli affari non si è fermato. E questo dato è stato colto nella sua interezza dalla sentenza di oggi. Una sentenza dal valore immenso, perché in precedenza le vittime sul lavoro non sono mai state considerate dal punto di vista penale. Oggi siamo a una svolta con potenziali ricadute nel resto d'Europa e del mondo».

«La sentenza – conclude Pesce – mi pare esemplare. Per chi non c'è più la condanna a 18 anni è giusta e sufficiente, ma per chi rimane resta irrisolto il problema dei risarcimenti. L’esclusione di buona parte delle parti civili (circa 2.500) a causa dell’estromissione dal processo del barone De Cartier, rappresenta sicuramente un problema, ma in sede civile non lasceremo nulla di intentato per recuperare i risarcimenti».

«Ora sono più sollevata», commenta dal canto suo la presidente dell'Afeva Romana Blasotti Pavesi, che aggiunge: «Certo, non posso dirmi soddisfatta perché il dolore è sempre grande, ma 18 anni sono una condanna importante. Non porto rancore, ma spero che i responsabili di questa tragedia si rendano conto dell'immane sofferenza provocata».

 

«Finalmente giustizia», dice infine tra le lacrime Pietro Condello, operaio Eternit dal 1966 al 1985 (fino alla chiusura dello stabilimento di Casale) che ha seguito tutte le udienze del processo con la tuta blu dell'Eternit e che lunedì, prima della lettura della sentenza, ne ha voluta regalare una al procuratore Raffaele Guariniello in segno di ringraziamento. Condello, che lavorava nel reparto delle materie prime, ricorda: «Giravamo l'amianto con i forconi. Eravamo in trenta. Sono l'unico scampato. Ma a ogni colpo di tosse, penso che sarò il prossimo».

Pubblicato il

06.06.2013 08:30
Claudio Carrer

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