Un mio professore di statistica, che fu anche direttore dell’Ufficio federale, punteggiava le sue lezioni universitarie con un “Witz” molto svizzerotedesco ma efficace: la statistica è una donna in bikini, mostra cose belle, nasconde quelle interessanti. Più arguto il citatissimo Trilussa con la storia del pollo («secondo le statistiche d’adesso / risurta che te tocca un pollo all’anno / e se non entra ne le spese tue / t’entra ne la statistica lo stesso / perché c’è un antro che ne magna due»). La prendo alla larga perché mi sembra che uno studio appena apparso del Kof (il Centro di ricerche  congiunturali del Politecnico di Zurigo) sia una sorta di risposta indiretta al mio precedente articolo. Nel quale si sosteneva che la maggior ricchezza creata dalle imprese sia sempre più dirottata a beneficio del capitale (finanza, dividendi agli azionisti) che non del lavoro. Una distorsione che nutre una situazione assurda: imputato è sempre il costo eccessivo del lavoro (e si licenzia per ottenere maggiori profitti) e mai il sovraccosto del capitale, costituito  dalla elevata parte di utili versata al capitale, agli azionisti.


Lo studio citato si occupa della ripartizione delle entrate tra utili alle imprese e salari ai lavoratori tra il 1980 e il 2012. Ci si dice che la ripartizione è rimasta stabile, con la parte versata ai salari che fluttua tra il 65 e il 70 per cento. La Svizzera sarebbe dunque un’eccezione tra tutti i paesi avanzati (dagli Stati Uniti ai vari paesi europei), paesi in cui si è invece verificato il contrario: la quota parte di ricchezza creata dalle imprese assegnata ai lavoratori è sempre diminuita; insomma, salari immobili o in retromarcia. Anzi, per dirla tutta, si prevede che per automazione, maggiore produttività e indebolimento dei sindacati, nei prossimi cinque anni si avrà un’ulteriore flessione del 3 per cento dei redditi salariali. L’eccezione svizzera è attribuita al fatto che ci si è specializzati in settori con alta intensità di conoscenza, settori che rappresentano quote parti salariali superiori alla media.


Ecco, ci siamo. Solitamente, non senza recondite intenzioni, si preferisce imboccare la strada della “mediana” statistica. Se il salario medio è la somma di tutti i salari divisa per il numero di addetti al lavoro, il salario mediano è collocato nel mezzo della massa salariale, con altrettanti salari sopra e altrettanti sotto. Il salario mediano è ovviamente tirato verso l’alto dalle retribuzioni più elevate. Complicato? Per farla breve diciamo che se se c’è una parte strapagata (e non è difficile  immaginare quale) il pollo di Trilussa  diventa sistema.
Mettiamoci  chi resta senza pollo  ricorrendo ad altri studi, forniti non molto tempo fa dall’Ufficio federale di statistica. Uno sull’evoluzione dei salari. Enucleiamo solo due dati: 275.000 posti di lavoro sono rimunerati con meno di 3.986 franchi (neppure due terzi del salario mediano!); nelle grandi regioni (Mittelland e regione lemanica) la proporzione di posti di lavoro a basso salario varia tra l’8 e il 12 per cento, nel Ticino è al 25 per cento: non a causa dei frontalieri, che sono una conseguenza, ma per il tipo di economia che abbiamo.
Un altro sui “lavoratori poveri”: il 3,7 per cento degli attivi occupati (130.000 persone) vive in un’economia domestica il cui reddito disponibile è inferiore alla soglia assoluta di povertà (2.350 franchi al mese).
Forse, a ben pensarci, anche con tutta la statistica,  è ancora il caso di sentirci unici?

Pubblicato il 

26.03.14

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