Lavoro

Più o meno nel solco della correttezza liberista, il professore di economia alla Cattolica e alla Bocconi dice cose tuttavia sensate: … più è alto lo spread e più è alto il tasso di interesse sul debito, peggio stanno i conti pubblici, e allora se i conti pubblici stanno peggio, lo spread aumenta ulteriormente; poi ci sono le banche, che vengono colpite dall’aumento dei tassi di interesse… Giovanni Floris lo interrompe, un po’ naïf: io dico, era ora che venissero colpite le banche, perché no? Qui il professore ha una leggera caduta di stile: Lei ha dei depositi bancari? Allora quindi se le banche vanno male sono i suoi soldi che vanno male, non è che vanno male le banche in astratto, vanno male i suoi soldi!
No, professore. Non è vero che nelle banche ci sono i nostri soldi. Ci sono i soldi che esse ci hanno sottratto con leggi, leggine, riforme, linguaggio da venditori di pentole e trucchi volgari. Per esempio con il passaggio delle pensioni dal sistema a ripartizione, fondato sulla solidarietà intergenerazionale gestita dallo Stato, al sistema a capitalizzazione, ognuno riceve quello che ha versato, naturalmente depositato in banca. In Svizzera con il cosiddetto secondo pilastro, che ha trasformato il salario differito dei lavoratori in capitale a rendita.


Il coronamento delle controriforme è stata infine l’invenzione del debito.

Un caso fra i tanti: i governi italiani sono invitati più o meno rudemente a “risanare le finanze”, cioè spendere meno in stipendi, ospedali, scuole, infrastrutture, e vendere pezzi del patrimonio dello Stato per poter pagare alle banche e agli investitori gli interessi del debito pubblico. Naturalmente alla parola “debito” è associata l’idea che un popolo indebitato viva al di sopra dei propri mezzi, sprecando e scialacquando. Le cifre dicono però il contrario: il debito pubblico italiano ammonta oggi a 2.250 miliardi di euro, e per gli interessi su tale debito l’Italia deve sborsare ogni anno 70 miliardi (20 miliardi in più di quanto spende per la scuola). Dal 1980 ad oggi sono stati pagati oltre 3.400 miliardi di interessi. Intanto il saldo primario (il saldo di bilancio prima del pagamento degli interessi sul debito) è positivo ininterrottamente dal 1992 (con la sola eccezione del 2009), cioè i cittadini versano in imposte allo Stato più di quanto lo Stato spende per loro.


Il nome accattivante con cui oggi viene chiamata la rendita è “risparmiatori”: I risparmiatori sono inquieti! (quando si profila un aumento di salario per i lavoratori), Bisogna tutelare il risparmio! (quando la Confederazione è dovuta intervenire nel 2008 per salvare dal fallimento l’Ubs multata dal fisco Usa perché aiutava i cittadini americani ad evadere le imposte, o quando lo Stato italiano ha dovuto aumentare il suo debito per salvare il Monte dei Paschi di Siena e le banche venete i cui proprietari si erano divisi fra loro tutto il patrimonio).


Negli anni Settanta, quando in Italia c’era ancora la lira e l’inflazione era arrivata al 7% annuo perché i lavoratori ottenevano aumenti di salario e i proprietari rispondevano con l’aumento dei prezzi, succedeva che per rendere appetibili i titoli del debito pubblico lo Stato era costretto a corrispondere un interesse del 6% e in più la compensazione dell’inflazione, quindi un interesse complessivo del 13%. Che cosa facevano allora i “risparmiatori”? Semplice: contraevano prestiti in Germania al 3% e li impiegavano in buoni del tesoro italiani al 13%. In uno di quegli anni il gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, che per i lavoratori dipendenti viene prelevata direttamente dal salario, era di 54.000 miliardi di lire, esattamente lo stesso ammontare degli interessi che lo Stato doveva versare ai detentori dei titoli del debito. Una minoranza di furbi incamerava quasi tutto il gettito fiscale.


Il lavoro come fonte di produzione della ricchezza sta diventando sempre più irrilevante rispetto alla rendita finanziaria, ha scritto un bravo economista. La rendita si è mangiata il lavoro.

Pubblicato il 

18.10.18

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