Accostare il piccolo con il grande aiuta a capire come va il mondo, qual è l’idea forza dominante, quale potere impone il gioco, magari tra inganni e buggerate. Azzardo un accostamento tra la riforma fiscale svizzera e gli intenti economici espressi dal neopresidente americano Trump. Con una tesi: nell’un caso e nell’altro si faranno contenti solo gli azionisti.


La riforma fiscale svizzera viene da lontano. Nonostante i motivi che si avanzano (tener conto delle pressioni europee, ciò che è persino curioso per la Svizzera eurofoba; adeguarsi alle norme internazionali), essa è in atto con sistematicità da un decennio. Dapprima, ci fu un alleggerimento sostanziale per le società holding, la soppressione dell’imposta sul capitale e dell’imposizione lineare degli utili (1997). Poi, arrivò un abbattimento fiscale corposo per alcuni azionisti (2007): accettato di misura in un referendum, si è presto scordato un inganno mostruoso perché, mentre il Consiglio federale sosteneva che la fattura sarebbe stata solo di alcune decine di milioni di franchi per il bene dell’economia, in realtà raggiunse i 7 miliardi, regalati agli azionisti e sottratti ai bilanci pubblici e quindi al popolo. Ora, siamo alla riforma che raggiunge il massimo dell’artifizio combinato tra modifiche imposte dall’esterno e affare certo per gli azionisti. Si pretende di dissuadere le imprese e le società a delocalizzare, partire per l’estero, alleggerendo l’imposizione fiscale sugli utili e offrendo altre opportunità fiscali sotto forma di deduzioni per attrarre altre imprese. Quindi – con l’immancabile ritornello apocalittico che non lascia scampo – non c’è alternativa se si vogliono salvare posti di lavoro e crearne altri. Non è detto che accada, bisogna crederci. Il meccanismo di imposizione architettato, con le deduzioni di varia natura previste, danno due sole certezze: gli sgravi implicano un calo massiccio delle entrate fiscali; i grandi vincitori della riforma saranno gli azionisti. I bilanci degli enti pubblici ne soffriranno, a scapito della popolazione e quindi anche dell’economia. Si dovevano trovare misure di equilibrio e di compensazione, come un’imposizione sui redditi da capitale o un aumento della tassa sui dividendi, sempre lautamente distribuiti (parcheggiati nei mercanti finanziari e non nell’economia reale): misure proposte, ma respinte a furore di Camere federali per non guastarsi banche, società finanziarie e grossi azionisti. In conclusione: l’obbligo di conformarsi alle disposizioni internazionali è servito di comoda e abile copertura di un’operazione senza precedenti di sgravi fiscali per…gli azionisti che beneficiano degli sgravi sugli utili netti delle imprese.


Che cosa propone Trump? Un forte sgravio fiscale sui profitti per motivi analoghi a quelli svizzeri: impedire delocalizzazioni, rimpatriare i profitti delle imprese americane all’estero, rilanciare l’economia. In realtà, l’obiettivo non è tanto quello dichiarato quanto quello di far salire i corsi borsistici come di fatto, senza contropartita reale, è già successo. Lo sgravio dei profitti, come annunciato, corrisponde ad un aumento del 20 per cento dei profitti netti delle imprese; i profitti rimpatriati non serviranno ad aumentare gli investimenti, quanto piuttosto all’autofinanziamento delle imprese, ad aumentare il riacquisto delle azioni e la distribuzione di dividendi, le fusioni-acquisizioni. Tutte evoluzioni favorevoli ai corsi borsistici e agli azionisti. Una politica delle azioni, altro che politica del lavoro! Suppergiù come in Svizzera: stesse ideologie, stessi poteri, stessi privilegi, stesse priorità. Stessi inganni.

Pubblicato il 

25.01.17
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