Ad Habib non restava più nulla, nemmeno i soldi per il pane. Eppure lui, fino a poche settimane prima, era stato un operaio, per oltre quindici anni in una acciaieria dalle parti di Brescia e poi portiere tuttofare in un albergo. Durante quei diciotto anni di lavoro era riuscito a spedire quasi regolarmente una parte del suo salario alla famiglia a Lahore. Con i permessi in Italia era stato “a posto” anche se, quasi per contrappasso, dalla sua mano destra mancavano tre dita, mozzate lavorando con una sagomatrice.

 

Da ragazzo, in Pakistan avrebbe potuto trovare del lavoro, a patto di pagare una sorta di pizzo e sapendo che poi non è per niente raro che a fine mese ti caccino con una paga almeno dimezzata rispetto a quella pattuita. Come attestavano proprio in quei giorni dello scorso settembre le cronache di incendi ed infernali esplosioni di fabbriche tra Karachi e Lahore, lavorando in patria avrebbe rischiato una menomazione fisica intera. Habib mi parlava così, alle porte di un ipermercato, fra necessità e caso, a Mendrisio, Svizzera, dopo aver dormito alla stazione, fra l’andirivieni dei vagoni merci e ora quello dei carrelli in inox per la spesa.

 

Dove andare? Cosa tentare? Come sopravvivere? Decidere di farla finita, pagando la crisi con la nuda vita? Eppure, questo luogo non doveva essere l’avamposto del progresso? Ci trovammo faccia a faccia, in quello spazio di scarto, in quello strano intervallo fuori dal mercato che era diventato improvvisamente il suo posto, il nostro posto, ossia un non-posto comune, non solo uno dei mobili rifugi effimeri nella città globale, ma improvvisamente anche qualcosa di più, qualcosa forse come una condizione umana, nella quale si levano le domande dai margini, e si accende sullo sfondo della fine un’illuminazione profana, un’esperienza di ri-soggettivazione.

 

Gli diedi, con un po’ di soldi, il mio carrello e la mia ospitalità, e rimasi lì io, sulla soglia, spaesato al suo posto. Cominciai a sentire che il pensiero critico, come l’esiliato, come l’apolide, può rigenerare l’altra realtà, realizzare a partire dal faccia a faccia morale la continua smentita dell’inumano. Benché già alle porte delle città antiche, assieme alle guardie, sostassero anche i becchini, occorre provare a superare comunque i posti di blocco dell’esistenza proprietaria e della politica utilitaristica, officianti da ogni dove il culto del controllo totale, il tentativo continuo di vietare l’accoglienza, di rimuovere l’altro. Poiché se è vero che “quando ci si mette davanti alla macchina bisogna uccidere la propria anima per otto ore al giorno, i propri pensieri, i sentimenti, tutto” (S. Weil), resta al contempo che quando si incontra il volto dell’altro si ha l’occasione di ritrovare un inizio, la scintilla antiutilitaristica dell’etica.

 

L’eticità non consiste in una mera conformità alle norme e ai decreti, già secondo Kant non si riduce affatto a un passivo rispetto della legalità, semmai a un suo accrescimento e superamento, mai a un suo restringimento. Al di là della conformità al dovere, oltre il piano delle motivazioni interessate o funzionali, l’essere-per-l’altro, la solidarietà, dovrebbe portare a superare gli imperativi ‘tecnici’ e ‘pragmatici’, la logica autoreferenziale dei conti e dei calcoli opportunistici, ed impegnarci all’accoglienza per concretizzare l’“originaria dignità di tutti coloro che hanno un volto” (H. Arendt). Così mentre Habib faceva la sua spesa minima, interrogando, con la mano monca, disperato e sorridente, la sterminata mole di superalcolici e carni suine messi in bella mostra, anch’io ebbi modo di emigrare, di spaesare per sempre, di agire oltre il vuoto di senso di ciò che celebriamo come la nostra identità, la nostra realtà, la nostra ristretta ‘strategia politica’.

Pubblicato il 

24.01.13

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