SocietĂ 

I miti elvetici, come ogni fatto idealizzato, portano con sé verità di fondo, che però rischiano di negare la realtà. “Ma in Svizzera stiamo tutti bene! È un paese ricco!”, quante volte abbiamo sentito queste affermazioni che ci facevano credere di vivere nel paese del bengodi. Eppure, non sembrerebbe essere precisamene così: uno studio sociale analizza il fenomeno della povertà che è in crescita nel nostro cantone: in uno spaccato che non emerge da statistiche incomplete e parziali.

«Generalmente, si considera la Svizzera, e con essa, seppur in misura minore, il canton Ticino, come uno stato in cui si vive bene. In Ticino, ad esempio, non esisterebbero i senza dimora. Non è  così, come ho avuto modo di analizzare attraverso la mia tesi di laurea: si tratta di realtà negate, difficili anche da ricostruire perché i dati si perdono in statistiche che spesso mancano e quando ci sono lasciano scoperti punti nevralgici». A parlare è Cinzia Frei, di Iragna, che ha dedicato la sua tesi di laurea magistrale, discussa all’Università Cattolica di Milano, al tema de “La povertà estrema in Canton Ticino: bisogni e misure d’intervento” (2016/17).


Cinzia Frei, che cosa è la povertà?
In Svizzera la soglia di povertà è fissata a 2.250 franchi al mese per persone singole, a 3.600 per le famiglie monoparentali e a 4.000 per le coppie con due figli. L’approccio relativo, generalmente, prende come riferimento il 60% del reddito disponibile mediano pro capite, soglia corrispondente a 28.664 franchi l’anno. Il reddito disponibile, cioè la differenza fra il reddito totale e le voci di spesa vincolate, appare la grandezza più indicata per valutare quanto è ricca o povera un’economia domestica poiché è il parametro indicante l’effettivo potere di acquisto. Se in Svizzera il tasso di povertà è del 6,6%, in Ticino è del 15,7% (Fonte Ustat, 2014). Al di là dei numeri, è importante superare la concezione di povertà come semplice assenza di denaro. Viene ormai riconosciuto come la povertà sia multifattoriale: il percorso discendente non è quasi mai causato da un singolo evento catastrofico, bensì, più spesso, si tratta di una lenta discesa, costellata da tante microfratture che contribuiscono a rendere più fragile una situazione già in partenza debole.


Insomma, ci sta dicendo che la povertà non è solo assenza di risorse economiche…
La povertà si è trasformata negli anni, è diventata molto più sfumata, riguarda sempre meno uno stesso gruppo, tendendo anzi a configurarsi come fenomeno trasversale, legato a singole fasi della vita e che mette a rischio categorie di cittadini un tempo fuori pericolo. La povertà in Ticino sta diventando una condizione comune, e sebbene per tanti si risolva in breve tempo, alcuni ne rimangono invischiati a lungo. Bisogna considerare che accanto alla povertà materiale ne esiste una di tipo sociale, in cui ciò che manca sono le risorse personali e relazionali per affrontare gli eventi stressanti che possono portare una persona a perdere tutto. Per questo lo Stato dovrebbe dare risposte globali.


Quali sono gli ambiti problematici che portano una persona a cadere in povertà?
Una malattia improvvisa, l’indebitamento (in aumento e preoccupante tra i giovani), l’immigrazione, il lavoro poco remunerato (che alimenta i cosiddetti working poor), la tossicodipendenza, i collocamenti durante l’infanzia, la monogenitorialità e lo statuto di indipendente. Insomma, non avere un’occupazione o percepire un salario troppo basso, dover crescere un figlio da soli o vivere un periodo di crisi può rendere poveri e trasformare in un senza dimora. Più studi hanno rilevato il doppio legame tra neoliberismo e precarietà e nuove forme di povertà nella nostra società, ma rimangono ancora da comprendere gli effetti che avranno sul lungo termine. È necessario ripensare tutto il sistema di welfare, facendo attenzione ai nuovi lavoratori creati dal neoliberismo, per evitare di dover gestire un’emergenza troppo grande per i mezzi a disposizione e per la quantità di persone che potrebbero essere coinvolte in futuro.


Noi siamo un giornale del lavoro, ci può dire qualcosa in più rispetto alla flessibilità e al rapporto con la povertà?
Le aziende cercano la flessibilità allo scopo di ridurre il costo diretto e indiretto del lavoro, adeguandolo, possibilmente in tempo reale, all’andamento della produzione e delle vendite, e poter così, secondo la loro opinione e quella di molti governi, rimanere competitive nel mercato globale. Il problema nasce dal fatto che si  adatta un principio legato alla produzione e alle merci, quindi a oggetti, alla forza lavoro composta da esseri umani. I lavoratori non sono più visti come persone, ma come merci… Non viene inoltre considerato che la flessibilità lavorativa, oltre a intaccare tutte le sfere della vita di una persona, implica un effetto negativo sulla produttività perché il lavoratore, che deve pensare a trovare un nuovo contratto prima che scada quello in vigore, è scarsamente motivato sul lavoro, non dispone di tempo per la formazione, né l’impresa ha alcun incentivo a fornigliela. Sul piano organizzativo la presenza di lavoratori che ruotano di continuo limita lo sviluppo dello scambio di conoscenze, sinergie tra competenze diverse, che sono un altro elemento essenziale della produttività. Gli effetti di questo nuovo modo di intendere la forza lavoro si mostreranno in futuro quando schiere di disoccupati cinquantenni non avranno competenze, conoscenze e formazione spendibili in nuovi lavori...


Concretamente che cosa si potrebbe fare?
Occorrerebbe una presa a carico del problema globale. Ciò che prevale dalla metà degli anni Novanta da noi è la cosiddetta soluzione dello «Stato sociale esigente, ossia uno stato sociale che sostiene ma chiede in cambio ai beneficiari delle prestazioni statali di impegnarsi attivamente a (re)integrarsi nel mercato del lavoro. Chi compie questo sforzo è premiato con prestazioni leggermente più elevate», cito dalla Strategia nazionale di lotta alla povertà del Consiglio federale. Lo scopo dello “Stato sociale esigente”, detto anche Workfare State, è migliorare l’efficienza del sistema economico ottimizzando l’impiego di risorse e capacità produttive. Tale obiettivo viene perseguito riducendo le prestazioni sociali e, contemporaneamente, aumentando gli incentivi e le misure a sostegno all’inserimento lavorativo. Il sistema di “Stato sociale esigente” spinge le persone ad accettare qualsiasi lavoro, pena l’esclusione dall’aiuto sociale, anche quando questo è nettamente inferiore alla loro formazione o quando offre contratti atipici, quindi fortemente a rischio di ricaduta nella disoccupazione o nella povertà. Dall’altra parte gli Uffici regionali di collocamento, come anche i servizi sociali, lamentano la mancanza di risorse per poter seguire i disoccupati. Il tutto si riduce così a una mera ricerca dei timbri obbligatori, senza alcun progetto. Inoltre, spesso ci si ferma al soddisfacimento dei bisogni primari, dimenticandosi di quelli cosiddetti secondari, ma ugualmente importanti per l’integrazione sociale e professionale di cui parlano le direttive Cosas (Conferenza delle direttrici e dei direttori cantonali delle opere sociali): «Una politica volta a eliminare o ridurre la povertà e l’esclusione sociale non può limitarsi a soddisfare i bisogni materiali di base». E poi è indispensabile avere a disposizione dati aggiornati: senza di essi non è possibile pianificare interventi di prevenzione. Solo nove cantoni analizzano a intervalli regolari la situazione economica e sociale della loro popolazione e pubblicano rapporti sociali. Il Ticino, purtroppo, non lo fa.

Pubblicato il 

26.10.17
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