Piangi Argentina

In anticipo o in ritardo, con un piede sull’orlo della bancarotta economica e dell’esplosione sociale, il pendolo dell’Argentina torna sempre a battere sull’ora peronista. «Come nel ’45 e nel ’90, il peronismo anticipa i tempi storici», ha sentenziato il vecchio senatore giustizialista Antonio Cafiero intervenendo nel dibattito in senato di domenica 6 gennaio. Quel giorno il Congresso, in mani peroniste dopo le elezioni del 14 ottobre, ha approvato la «Legge di emergenza pubblica» trasmessa dal nuovo presidente della Repubblica, il peronista Eduardo Duhalde. E ha cancellato la «Legge di convertibilità», il micidiale meccanismo di 1 dollaro = 1 peso, approvata nel ‘91 dalla maggioranza peronista di un presidente peronista, Carlos Saul Menem, e del suo «geniale» ministro dell’economia, Domingo Cavallo. La legge del ’91 spalancava le porte dell’Argentina alle teorie neo-liberiste e alla pioggia di capitali stranieri – 77 miliardi di dollari in 10 anni, soprattutto americani e spagnoli – attirati dalle privatizzazioni a raffica e dagli altissimi rendimenti. Ma col tempo gli effetti collaterali erano stati devastanti. Fino ad arrivare alle soglie del collasso, lasciato in eredità al radicale Fernando De la Rua, eletto nel dicembre ’99 alla testa di una coalizione socialdemocratica, che aveva avuto la bella idea di affidare l’economia, a partire dal marzo scorso, di nuovo al «Cavallo pazzo». Una situazione insostenibile, nonostante la cordata da 40 miliardi di dollari lanciata dall’Fmi nel dicembre 2000 e i ripetuti (e inascoltati) ammonimenti di una Chiesa cattolica meno succube del potere e più attenta al sociale di un tempo. Il coperchio è saltato pochi giorni prima di natale, quando sono stati presi d’assalto i negozi e la classe media urbana è scesa in strada a gridare la propria esasperazione contro i politici «corruptos» e «vendepatria». Il 19 dicembre si era dimesso Cavallo, il 20, dopo una repressione costata 27 morti, De la Rua. L’Argentina era ormai in «default». Usa e Fondo monetario avevano nel frattempo chiuso i rubinetti del credito e sembravano decisi a lasciarla andare al suo destino, sicuri che questa volta non ci sarebbero stati contagi. Da allora, per 15 giorni, l’Argentina ha passato le pene dell’inferno. «La peggiore crisi della sua storia. Perché non c’era mai stato un vuoto di potere simile», dice lo storico Felix Luna. Quel vuoto di potere, che in altri tempi sarebbe stato rapidamente colmato da un golpe militare, lo hanno riempito i peronisti. In 15 giorni 5 presidenti si sono succeduti alla Casa Rosada. A parte De la Rua, gli altri 4 erano peronisti. E se 3 sono stati dei meteorici carneadi (Puerta, Rodriguez Saa, Camano, per la cronaca) il quarto è uno dei pesi massimi del giustizialismo. È l’ora dell’ex Eduardo Duhalde, 60 anni, viene da lontano e vuole andare lontano. Ex vicepresidente dall’89 al ’91 con Menem, ex governatore della provincia di Buenos Aires, poi senatore, con il dovuto curriculum di accuse – peraltro non provate – di corruzione alle spalle («Duhalde narco», ha scritto qualcuno sui muri della città nei giorni della rivolta). Per il momento si è piazzato alla Casa Rosada fino al 2003, anno in cui scadrà il mandato di De la Rua. Nell’insediarsi, mercoledì 2 gennaio, ha detto che suo unico obiettivo è quello di salvare un’Argentina «fallita, affondata e minacciata da un bagno di sangue», e che fra due anni non si ripresenterà. Ma due anni sono lunghi. Per cogliere l’attimo sfuggitogli nel ’99, quando fu malamente sconfitto da De la Rua (e da Menem, che lo detesta, ricambiato), Duhalde ha dovuto battere una concorrenza interna da sempre feroce nel Partito giustizialista. Lotta intestina Fuori gioco i radicali, gli avversari storici, incapaci di mantenersi al potere (nell’89 Alfonsin e ora De la Rua), gli aspiranti peronisti erano – e sono – molti: Carlos Ruckauf, ex vicepresidente di Menem, ex governatore della provincia di Buenos Aires; José Manuel de la Sota, governatore della provincia di Cordoba; Carlos Reuteman, ex pilota di Formula Uno e governatore della provincia di Santa Fe; lo stesso Menem che, appena liberato in novembre dagli arresti domiciliari per uno dei tanti scandali di corruzione in cui è coinvolto, è tornato in pista come presidente del partito e come candidato alla presidenza della repubblica nel 2003. Quando il folclorico Rodriguez Saa ha capito che i suoi sogni di installarsi alla Casa Rosada svanivano, Duhalde aveva già preso tutti sul tempo. Si era messo d’accordo con Alfonsin e con Anibal Ibarra, sindaco di Buenos Aires e leader di quel che resta del Frepaso, la coalizione socialdemocratica andata al potere (e in pezzi) con De la Rua, e anche con Ruckauf, a cui ha offerto il ministero degli esteri e un’ottima posizione per coltivare le ambizioni per il 2003. Duhalde ha messo in piedi un governo nominalmente di «unità nazionale» ma in realtà tutto di peronisti, salvo un paio di eccezioni minori, e per di più di peronisti portegni. In cui ha arruolato anche la moglie «Chiche», che si occuperà di assistenza sociale ai poveri insieme con la Caritas di monsignor Jorge Casaretto. La prima mossa di Duhalde e del suo ministro dell’economia Remes Lenicov è stata la svalutazione del peso e l’adozione di un doppio cambio a partire da mercoledì 9 gennaio: uno ufficiale, a 1.40 contro il dollaro, e uno libero stabilito dal mercato. Poi, con la «Legge di emergenza nazionale», ha avviato una linea antitetica a quella del neoliberismo di De la Rua ma soprattutto di Menem: rottura dell’alleanza con le banche e le transnazionali, politica di rilancio della produzione nazionale e di ricostruzione dello Stato smantellati dal menemismo. L’appoggio della Chiesa Le impalpabili sinistre sono contro il suo piano, perché temono che si tratti solo di un cambio di alleanze fra i poteri forti. Ma non contano. Conta e molto invece la chiesa, alla cui dottrina sociale Duhalde dice di ispirarsi, e che l’appoggia. Sono lontani i tempi in cui i peronisti attaccavano i preti ed Evita era scomunicata. Naturalmente furiosi sono anche gli spagnoli, che hanno investito nell’Argentina menemista 40 miliardi di dollari. Ma finora Duhalde ha resistito alle «tremende» pressioni delle varie lobbies e ha costretto il premier Aznar («Aznar hijo de puta» si legge sui muri di Buenos Aires) a chiamare cinque volte prima di rispondergli (picche). Anche a Washington cominciano ad avere paura, sia alla Casa bianca sia al Fondo monetario, che il «populismo nazionalista» di Duhalde si diffonda nel terreno fertile dell’anti-globalizzazione in America latina. C’è addirittura chi azzarda il paragone con Salvador Allende. Ma Duhalde non è e non sarà Allende. Chi sia di preciso non si sa ancora. Perché «el cabezon» è un peronista doc e quindi può essere tutto e il contrario di tutto a seconda dei casi. Il ’45 e il ’90, come diceva Antonio Cafiero in senato, il Peron dell’autoritarismo nazionalista più spinto e il Menem del neoliberismo più sfrenato.

Pubblicato il

11.01.2002 05:00
Maurizio Matteuzzi
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