Petrolio di Stato, appetiti privati

Il Messico e il “suo” petrolio. Come scrisse il grande Carlos Fuentes, «in Messico la nazionalizzazione assoluta è una vacca sacra: è Pemex, senza che importi se è inefficiente o obsoleta. Credo fermamente che non abbiamo bisogno di de-nazionalizzare Pemex e consegnare il petrolio alle compagnie private. Quello che dobbiamo fare è conservare la proprietà pubblica, però permettendo che gli affari privati operino dentro il settore pur mantenendo l'industria petrolifera in generale come patrimonio nazionale».

 

Fuentes, morto poco più di un anno fa, è stato uno dei massimi scrittori del boom latino-americano della seconda metà del '900, autore fra gli altri di “In morte di Artemio Cruz” e “Il gringo vecchio”, condensa in queste poche righe le contraddizioni irrisolte, e probabilmente irresolubili, del grande paese meso-americano.
Il petrolio, la sua “nazionalizzazione assoluta” e il suo simbolo - Pemex, “la vacca sacra” - restano il mito fondativo per eccellenza (e, finora, il tabù) che definisce il nazionalismo messicano . Un mito e un tabù che non si capiscono se non risalendo agli anni '30 del '900 quando il Messico cercava di consolidarsi dopo i terribili sconquassi della grande rivoluzione del 1910. Fu il presidente Lazaro Cardenas, l'icona del nazionalismo messicano, che nel '36 fece approvare la Ley de Expropriacion e nel '38, per decreto presidenziale, costituì Petroleos Mexicanos, la compagnia parastatale a cui attribuì il monopolio assoluto in materia di idrocarburi. Una proprietà “inalienabile e imprescrittibile”, quella della “Nazione” sul “suo” petrolio, e un monopolio, quello di Pemex, che Cardenas nel '40 fece scrivere nella Costituzione.


Ma i miti e i tabù, anche i più resistenti, a volte cadono. Tanto più che trattandosi di Pemex – 2.5 milioni di barili prodotti ogni giorno – e del petrolio – il Messico ottavo produttore al mondo –, non si tratta solo degli aspetti simbolici, ancorché fondativi. Dietro il fumo dell'immaginario c'è l'arrosto, e tanto.
Così lunedì 12 agosto il presidente Enrique Peña Nieto ha presentato solennemente la sua proposta di “riforma” delle due ultime “vacche sacre” – Pemex e Cfe, Comision Federal de Electricidad, l'altra statale che ha il quasi-monopolio sulla elettricità – sopravvissute finora al furore di modernizzazione e privatizzazione che ha cambiato la faccia del Messico in questi ultimi 20 anni: dal 1° gennaio 1994, il giorno in cui entrò in vigore il Nafta, l'Accordo di libero scambio per il Nord-America (Usa-Canada-Messico).


Peña Nieto, ovvio, nega che la “riforma energetica”, per cui sarà necessario modificare tre articoli della Costituzione, sia una “privatizzazione”. Quando mai? Pemex e Cfe “non si vendono né si privatizzano”. L'unico obiettivo – “una opportunità storica” – è quello di “modernizzare” e “rendere più forte” il settore energetico messicano, che ha perduto “dinamismo e competitività”. “A beneficio della società”. Per cui invocando il nome di Cardenas il suo (degenere?) successore annuncia un progetto che “conferma la proprietà statale sugli idrocarburi” ma introduce “l'apertura agli investimenti privati”.


Non è la prima volta ma questa volta la cosa è più seria. Ci avevano provato i due predecessori di Peña Nieto, Vicente Fox (2000-2006) e Felipe Calderon (2006-2012), del Pan, Partido de Accion Nacional, destra cattolico-liberista, i primi che avevano rotto l'egemonia del Pri, il Partido Revolucionario Institucional (un ossimoro), ininterrottamente al potere dal 1929. Ma il Pan non aveva la forza per un simile strappo. Ci voleva il Pri, che contraddicendo quanti lo davano per morto, nel 2012 è tornato in forze: a Los Pinos, il palazzo presidenziale a Città del Messico, con Peña Nieto; alla Torre Pemex, l'orgoglioso grattacielo alto 214 metri simbolo del boom del petrolio e della compagnia, con il nuovo direttore generale Emilio Lozoya Austin (investimenti stranieri ma la riforma è “nazionalista”); alla testa del poderosissimo “Sindicato de Trabajadores Petroleros de la Republica Mexicana, Stprm, con il chiacchieratissimo Carlos Romero Deschamps (sostegno “incondizionato” alla riforma e all' “inevitabile” taglio del personale, attualmente gonfiato oltre i 150.000 addetti).


Ora i progetti di riforma di Pemex (e Cfe), che a giorni comincerà a dibattere prima il Senato poi la Camera, sono tre: quello del governo Pri, quello del Pan e quello del Prd, il Partido de la Revolucion Democratica. Tutti nel nome di Cardenas: quello del governo priista (“una riforma al 100% cardenista”), quello ancor più “aperturista” della destra (ma “non è una privatizzazione”), quello del partito più o meno di sinistra che, dopo qualche titubanza iniziale, vuole “solo” riformare Pemex ma non aprirla agli investimenti stranieri, e ha lanciato la campagna per un referendum popolare nel caso in cui gli emendamenti costituzionali passino al Congresso (eventualità probabile in quanto il “Prian”, Pri e Pan, insieme hanno i due terzi necessari).


In Messico infuria una guerra di cifre e di numeri per dimostrare che Pemex è, a seconda dei casi, in bancarotta, ovvero il quadro catastrofista diffuso dal governo, dalla destra e dai media mainstream è falso e viziato per confermare l'ineluttabilità dell’apertura. Pemex, nonostante tutto, resta il quinto produttore di greggio e l'undicesima compagnia petrolifera del mondo, ha riserve provate di oltre 44 miliardi di barili, introita più di 100 miliardi di dollari l'anno, contribuisce per il 7,7% al Pil, per il 16,5% al commercio estero, per il 35,4% agli introiti del settore pubblico, per il 64.7% alle riserve in dollari. Però ha accumulato un debito di 60 miliardi di dollari, è vittima (o colpevole) di un sistema di corruzione istituzionalizzata, dell'ingordigia di una casta politica e sindacale dorata. Ma soprattutto di un regime fiscale insostenibile per qualsiasi impresa pubblica o privata.
Pemex non è stata solo, finora, la vacca sacra del sistema messicano ma anche la vacca da mungere. Praticamente il 60-70% degli introiti di Pemex vanno alle casse statali. Nel 2012 il carico fiscale sugli introiti totali è stato dell'11% per la colombiana Ecopetrol, del 19% per la norvegese Statoil, del 39,9% per la venezuelana Pdvsa e del 67,4% per Pemex.


Un carico fiscale in clamoroso contrasto con la sua leggerezza per imprese che fanno i miliardi in Messico – un vero paradiso –: AmericaMovil del paperone Carlos Slim paga il 6% degli introiti; Femsa, l'imbottigliatore della Coca Cola più grande del mondo, il 3,3%; Wal Mart il 2,3%.


Che Pemex vada “riformata” per farne un'impresa e non più una vacca (sacra o da mungere non importa), non c'è dubbio; che il suo rapporto con il governo centrale e il suo regime fiscale vadano cambiati, è ovvio. Che tutto questo possa accadere con l'ingresso di capitali e investimenti privati stranieri è per lo meno dubbio. In un editoriale di agosto, il Wall Street Journal ha definito “straordinaria” la doppia proposta di aprire Pemex agli investimenti privati e farla finita con il monopolio elettrico della Cfe: “Sarebbe un gran colpo nella modernizzazione del Messico che non si è più visto dal Nafta del 1994”. Capito?

 

Pubblicato il

25.09.2013 22:35
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