Per gli assassini della Thyssen si aprono le porte del carcere

“Otto sono i minatori / ammazzati a Gessolungo / ora piangono i signori / e gli portano dei fiori / Hanno fatto in Paradiso / un corteo lungo lungo / da quel trono dov’è assiso / Gesù Cristo gli ha sorriso (...) / Poi, levando a poco a poco / la sua mano giustiziera / con un fulmine di fuoco / ha distrutto la miniera”.
Questa vecchia canzone del 1958 (testo di Straniero, musica di Amodei) in memoria dell’ennesima strage operaia nella zolfara siciliana mi è venuta in mente una mattina di dicembre del 2007 nel Duomo di Torino, al funerale degli operai della ThyssenKrupp che avevano avuto la “fortuna” di morire subito bruciati, mentre per altri loro compagni l’agonia era durata settimane, o addirittura mesi.

 

In sette furono sacrificati sull’altare del profitto, e quando prima dell’omelia del cardinale fu portata una corona di fiori spudoratamente inviata dai padroni della multinazionale tedesca, i parenti delle vittime la scaraventarono giù per la scalinata della cattedrale. Insieme a “La Zolfara” un’altra canzone, “Uguaglianza”, ha fatto irruzione nella mia mente, una canzone di Pietrangeli di 10 anni più recente. Non siamo più in una miniera ma in un cantiere edile: “Ti ho visto lì per terra / poi ti han coperto il viso / la giacca del padrone che ti ha ucciso / T’hanno coperto subito / eri ormai per loro da buttar via”.


L’incubo di quella notte di dicembre di nove anni fa è finito con l’ultima sentenza, questa volta definitiva, della Corte di Cassazione. Sei condanne per omicidio colposo plurimo e incendio doloso, ci sono voluti cinque processi e solo all’ultimo momento è caduta nel vuoto la richiesta del Procuratore generale della Cassazione che chiedeva l’ennesimo annullamento della sentenza d’appello, richiesta accolta con urla di rabbia dai sopravvissuti alla strage e dai parenti delle vittime.


Ma ora finalmente le porte del carcere si sono aperte per almeno quattro assassini, per gli altri due bisognerà attendere che un tribunale tedesco “adatti” la sentenza italiana alla legislazione del paese della ThyssenKrupp. Così i 9 anni e 8 mesi inflitti all’ad Harald Espenhahn saranno probabilmente dimezzati, così come i 6 anni e 3 mesi di Gerard Priegnitz. I quattro assassini italiani, anelli più bassi nella gerarchia aziendale, si sono consegnati spontaneamente alle forze dell’ordine.


Nel 2007 il colosso dell’acciaio aveva deciso la chiusura dello stabilimento torinese e tutte le norme di sicurezza erano state ridotte, alcune cancellate. Così, un incidente che a Duisenberg e persino a Terni sarebbe stato evitato o quanto meno controllato e i danni ai lavoratori limitati, a Torino risultò fatale per sette operai bruciati vivi. Se si fa cento sulla sicurezza in patria, a Terni si scendeva a 50 e a Torino tendeva a zero. Ma anche se quest’ultima fabbrica era alle ultime settimane di vita, agli operai erano richiesti un bel po’ di straordinari. Alcune delle vittime erano alla dodicesima ora di lavoro.


L’inchiesta giudiziaria avviata dall’équipe guidata da Raffaele Guarinello fu accuratissima, durò appena una manciata di settimane e il primo processo torinese introdusse due straordinarie novità nell’ambito della sicurezza sul lavoro: la ricerca dei colpevoli non si fermò ai primi livelli della gerarchia aziendale ma puntò dritto al vertice, ad e direttore dello stabilimento. Seconda novità, gli imputati furono condannati a una pena molto dura per un reato mai utilizzato nella fattispecie: omicidio volontario, perché i vertici Thyssen erano perfettamente consapevoli del rischio che facevano correre ai lavoratori riducendo le norme di sicurezza. Poi, in appello, il reato fu derubricato e le pene parzialmente ridotte. Ci sono voluti cinque processi per la condanna definitiva, che ha fatto dire a chi per nove anni si è battuto per ottenere verità e giustizia per la strage torinese: “Giustizia è stata fatta, ma il dolore non ce lo cancella nessun giudice”. Anche Guariniello, da pochi mesi in pensione, è soddisfatto nonostante tutto, nonostante la derubricazione del reato di omicidio volontario. Il suo obiettivo è sempre stato, in ogni processo, non la vendetta ma la giustizia, finalizzata a impedire che crimini simili abbiano a ripetersi.
I padroni hanno imparato qualcosa dal rogo di Torino? È lecito dubitarne. E il governo Renzi? Basti dire che, in un paese in cui la salute, i diritti e la vita i chi lavora contano sempre meno, uno dei sei dirigenti condannati della Thyssen, Marco Pucci, era stato nominato direttore generale dell’Ilva mentre era sotto processo, e l’Ilva richiama una strage di operai e cittadini ben più grave di quella torinese. Solo la protesta dei lavoratori ha costretto Pucci a rinunciare all’incarico.

Pubblicato il

24.05.2016 22:34
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