Sono trascorsi 7 anni dal giorno in cui la Cina ebbe la meglio nella gara di assegnazione dei Giochi Olimpici del 2008. Era il 13 luglio del 2001, quando il sogno olimpico divenne per Pechino l'occasione di rivalutare la propria immagine agli occhi del mondo, scrollandosi di dosso la zavorra insanguinata di Piazza Tiananmen e cancellando l'idea ormai scomoda di Paese in via di sviluppo. All'epoca, la Cina credeva meno in sé stessa, non attirava ancora le invidie e i timori dei paesi stranieri, e forse non immaginava che in pochi anni sarebbe diventata la Mecca del business mondiale.
Oggi le prospettive sono cambiate. Merito di un'economia inarrestabile, spinta da milioni di operai sottopagati dai quali dipende la competitività del Made in China, e veri artefici dello strabiliante progresso economico attestato su una crescita del Pil di un 10 per cento medio all'anno. Dopo essersi strappata di dosso i panni di nazione emergente, la Repubblica popolare cinese ha indossato la corazza di superpotenza mondiale, capace di tenere per il bavero gli Stati Uniti e la vecchia Europa. In questo modo, le Olimpiadi di agosto non sono più un biglietto da visita da presentare ai Paesi stranieri, ma l'occasione per consacrare la propria supremazia planetaria.
Tuttavia, entrare nel salotto buono del capitalismo mondiale ha un prezzo anche per Pechino, costretta a specchiarsi sulle proprie azioni e rispondere a quesiti imbarazzanti su politica interna, diritti umani e perché no, anche sui diritti dei lavoratori. Così, mentre il premier Hu Jintao ravviva l'orgoglio nazionale sulle note dell'inno olimpico "We are ready", oltre confine cerca di rispondere colpo su colpo alle critiche catalizzate dall'imbuto mediatico allestito per i Giochi di agosto. Per prima cosa, il governo cinese ha ingentilito le proprie apparenze, ad esempio scegliendo come mascotte olimpiche il pesce, il panda e la rondine, al posto di drago e leone ritenuti troppo aggressivi. Molti abitanti della capitale poi, sono stati indirizzati a corsi di galateo e a sedute di perfezionamento del sorriso. Anche i tassisti hanno avuto la loro parte nella strategia di marketing stabilita dal Partito, costretti a seguire un ferreo protocollo che oltre a vestiario e acconciature, tocca alimentazione (poco aglio) e igiene personale (più dentifricio). Se non bastasse, la propaganda cinese è giunta fino al cielo, mettendo a punto dei missili speciali da lanciare in aria per contrastare chimicamente gli accumuli di nubi e polveri sottili, garantendo «terse giornate di sole» durante i Giochi.
Si tratta ovviamente di meri diversivi, necessari per distrarre l'attenzione da problematiche ben più gravi e universalmente note, come repressione violenta delle minoranze (Tibetani e Uiguri tra tutti), sostegno politico e militare ai regimi asiatici e africani, ampia applicazione della pena di morte, detenzione preventiva, censura mediatica e mancanza di trasparenza sulle questioni interne. Poi vengono centinaia di milioni di lavoratori, gran parte dei quali (donne e minorenni inclusi) sono costretti a turni di 14 ore al giorno, per 6 o addirittura 7 giorni la settimana, in ambienti di lavoro talvolta disumani e privi dei requisiti minimi di sicurezza. Ciò accade pressoché in ogni settore, anche se la maglia nera spetta alle miniere, dove secondo i dati forniti dall'agenzia di stampa governativa Xinhua, nel 2007 hanno perso la vita "appena" 3 mila 786 operai. Un vero successo per Pechino, che può vantare la netta riduzione del costo in vite umane per ogni milione di tonnellate di carbone estratto, passato dai 5 decessi del 2002 all'1,5 dello scorso anno. Poco importa se l'economia cinese è alimentata per il 70 per cento dal carbone, e se il fabbisogno crescente è arrivato a 2 miliardi e mezzo di tonnellate annue.
Uscendo dal settore specifico, si scopre come il problema delle vittime sul lavoro in Cina sia una piaga sociale senza pari. Secondo le (parzialmente attendibili) fonti ufficiali, nel 2007 più di 100 mila persone hanno perso la vita in attività legate al lavoro in generale. Cifre destinate a crescere se consideriamo le statistiche indipendenti, per le quali si parla di 130 mila decessi, circa 350 al giorno. Inutili gli sforzi attuati dai sindacati clandestini – la Cina vieta i sindacati autonomi in quanto potrebbero minare la stabilità dello stato –, la cui voce viene soffocata da imprigionamenti, violenze e con l'introduzione di generiche norme di sicurezza puntualmente ignorate dalle imprese. Troppi interessi in ballo: sfruttando l'immagine di un sindacato fantoccio e l'assenza di sindacati liberi, Pechino crea le condizioni di competitività (salari bassissimi e costi contenuti) necessarie per attirare investimenti esteri e produrre merci a buon mercato che ormai hanno invaso i mercati stranieri. Sbagliato però puntare il dito solo sul Partito e l'élite cinese. Parte della responsabilità ricade anche sulle aziende straniere, in maggioranza europee ed americane, che ogni giorno rafforzano il sistema incanalando fiumi di dollari verso la Cina, per poi lavarsi la coscienza sostenendo movimenti "pro Tibet".

Pubblicato il 

11.07.08

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