Oggi sciopero e manifesto

Fabbriche vuote, piazze piene. La Fiom-Cgil non ci sta a piegarsi al ricatto dell'amministratore delegato Fiat che sta facendo scuola tra i padroni italiani e punta ad azzerare il sistema dei diritti del lavoro conquistati nella seconda metà del secolo scorso.

Così, al fianco dei lavoratori di Mirafiori e Pomigliano che hanno offerto una lezione d'orgoglio a tutto il paese berlusconizzato, la Fiom ha deciso di mandare in scena venerdì 28 gennaio lo sciopero generale dei metalmeccanici. Generale e generalizzato, grazie al lavoro straordinario di "uniti contro la crisi" che ha mobilitato tutti i soggetti sociali impegnati a costruire un'alternativa alla risposta neoliberista - fondata sulle stesse ricette e le stesse persone che hanno provocato la crisi - del governo e di Confindustria: gli studenti in lotta contro la riforma Gelmini, il mondo del precariato, i movimenti per la difesa dei beni pubblici, dell'ambiente e del territorio sfilano insieme alle tute blu, forti di tre mesi di pratica comune costruita attraverso assemblee, mobilitazioni e manifestazioni in tutte le città italiane. Il 28 poteva essere un appuntamento ancora più forte se la Cgil avesse indetto lo sciopero generale di tutte le categorie. C'è ancora tempo per un secondo atto, il confronto nel maggior sindacato italiano è acceso.
Quel che la filosofia Marchionne vuole cancellare è il contratto nazionale di lavoro, il principale strumento di solidarietà in un paese in cui l'assetto industriale è segnato dalla netta prevalenza di piccole e piccolissime realtà dove è difficilissimo strappare contratti aziendali, in molti casi addirittura garantire una presenza sindacale. In nome della globalizzazione la Fiat guidata da Marchionne ha fatto da apripista a una vendetta sociale, di classe, che con il sostegno del governo e con la pratica sempre più diffusa degli accordi separati cancella il ruolo contrattuale del sindacato, riduce i lavoratori ad appendici delle macchine, redistribuisce la ricchezza spostandola dal basso verso l'alto.
Il meccanismo è semplice: scatenare la guerra tra poveri, gli operai del sud e dell'est messi in concorrenza con quelli del nord per azzerare i diritti. I lavoratori con contratto stabile contro i precari, gli indigeni contro i migranti e via dividendo. Marchionne ha decretato la fine della lotta di classe spiegando che l'azienda è una macchina da guerra dove padroni, manager e operai (naturalmente ai remi) collaborano e combattono contro le navi da guerra della concorrenza. Il nemico dell'operaio Fiat è l'operaio della Volkswagen.
Marchionne però ha preso due sberle, prima a Pomigliano dove il 36 per cento della fabbrica ha votato no al referendum che cancella i diritti di sciopero, di malattia, impone una turnistica insostenibile. Il referendum diceva: se voti sì investo in questa fabbrica sennò vado a costruire in Polonia. A Mirafiori Marchionne ha imposto un diktat ancora peggiore, escludendo dalla fabbrica le organizzazioni non firmatarie e ha preso una sberla maggiore: il 46 per cento dei dipendenti ha votato no, e il no rappresenta più della metà degli operai a cui le attenzioni della Fiat sono rivolte.
Il risultato del voto orgoglioso alla Fiat ha un valore ancora più straordinario se si pensa al ruolo giocato dalla politica. La destra e il governo hanno fatto un tifo da stadio per Marchionne e il maggior partito d'opposizione, il Pd, si è diviso tra fans della nuova filosofia Fiat e silenziosi e imbarazzati dirigenti che teorizzano "l'equivicinanza" tra capitale e lavoro. Insomma, per quasi tutti si deve rinunciare ai diritti per salvare il lavoro. E il posto di Marchionne che mentre pretende lacrime e sangue dagli operai e cancella il premio di risultato guadagna, tra stipendio e stock option, come tutti gli operai delle carrozzerie di Mirafiori messi assieme. Dice che è cambiato il millennio, che comanda il mercato e bisogna battere la concorrenza. Promette investimenti e modelli nuovi che non fa mentre le vendite Fiat crollano in tutt'Europa e dice che la colpa è degli operai.
Il 28 gennaio la Fiom si gioca la pelle, il suo peso nelle fabbriche e persino dentro una Cgil troppo timida e troppo impegnata a ricostruire un rapporto oggi contro natura, contro la realtà, con la Confindustria e con i sindacati complici, Cisl e Uil. Se la Fiom dovesse perdere la sfida perderebbe l'Italia democratica, e con essa svanirebbe per una lunga stagione la possibilità di cambiamento. Ma non perderà la Fiom, perché alla solitudine politica si oppone un consenso sociale straordinario di chi non ha più una rappresentanza politica e rischia di perdere anche l'ultima rappresentanza sociale.


Nina, una vita alla catena

«Capisci cosa vuol dire non poter più scegliere chi dovrà rappresentarti, perché lo decideranno arbitrariamente il padrone e i sindacati suoi complici? Sta scritto nel nuovo contratto imposto da Marchionne ai lavoratori di Mirafiori con un diktat in ci veniva chiesto: vuoi lavorare rinunciando ai tuoi diritti, oppure vuoi che chiuda la fabbrica e trasferisca la produzione all'estero?».
Nina Leone è operaia alle carrozzerie della fabbrica di automobili più grande del mondo, ha 47 anni, esattamente l'età media di Mirafiori. E' delegata Fiom dal 1994 e dall'88 lavora in Fiat, prima direttamente alla catena di montaggio dove montava il riparo dall'acqua sotto la ruota della vettura, poi il filtro dell'aria. 10 anni a un ritmo infernale con operazioni faticose, in posizione scomoda, della durata di un minuto e 22 secondi per garantire 292 pezzi per ogni turno di lavoro. Finché si è "rotta": «mi hanno riscontrato un'epicondilite e sono stati costretti a spostarmi in preparazione linea ai sequenziamenti di particolari da mettere sulla scocca, io riempio i carrelli con i pezzi che gli operai alla catena sistemano sulla vettura e quando il carrello è vuoto lo riempio, e via così per tutto il giorno, il mese, gli anni. Via così per tutta la vita. Certo, sono fortunata rispetto agli operai e alle operaie di linea, la mia mansione ha una durata maggiore, il lavoro è meno stressante ma ormai si corre come pazzi anche in preparazione in seguito alla velocizzazione della linea di montaggio». Su cinquemila operai della carrozzeria di Mirafiori sono 1.400 quelli rotti, tecnicamente si chiamano "ridotte capacità lavorative" a causa di tendiniti, tunnel carpale, dolori alla schiena e agli arti inferiori.
Nina non è sposata e non ha figli, dunque deve mantenere solo se stessa con uno stipendio che sarebbe di 1'200 euro al mese se non ci fosse la cassa integrazione a farla da padrona. Da anni è più il tempo che sta a casa di quello passato in fabbrica con il risultato che in busta paga «è difficile che trovi più di 800 euro». Lavora, quando lavora, alternativamente su due turni, quello del mattino dalle 6 alle 14 e quello pomeridiano dalle 14 alle 22. Se le chiedi perché si è battuta contro il diktat di Marchionne diventa un fiume in piena, inarrestabile come la sua rabbia: «Ci hanno chiamati sfaticati perché da noi l'assenteismo è più alto di un paio di punti rispetto alle fabbriche nuove, dove l'età media è decisamente più bassa. Un'accusa intollerabile, la stessa che avevano scagliato contro i miei compagni di Pomigliano per costringerli ad accettare condizioni intollerabili con un altro referendum truffa, salvo poi portarli come esempio di dedizione quando la mannaia era pronta per noi».
Nina ha votato no, come la maggioranza degli operai di Mirafiori (11 voti in più rispetto ai sì, la differenza l'hanno fatta i 500 capi, quadri e impiegati che hanno votato sì al 97 per cento portando il risultato finale a 54 per cento di sì contro il 46 per cento di no). Non tollera l'idea che non si potrà più scioperare sulle condizioni di lavoro, salvo beccarsi punizioni fino al licenziamento, né si potranno più eleggere i delegati, nominati invece d'ufficio dai sindacati firmatari del nuovo contratto. La Fiom, l'organizzazione maggioritaria tra i metalmeccanici, è fuori dalla fabbrica. O meglio Marchionne pretenderebbe, contratto alla mano, di metterla fuorilegge. Nina non accetta che le pause fisiologiche vengano ridotte da 40 a 30 minuti e dice che i «contratti a menù sono un provocazione e al tempo stesso impraticabili: pensa solo alla pretesa di introdurre turni di 10 ore più una di straordinario se lo decide il padrone. Ma tutti questi commentatori, i politici di destra e di sinistra che ci consigliano di accettare e firmare, hanno un'idea di cosa vorrebbe dire restare incatenato alla linea per 11 ore? Nel contratto c'è scritto che i primi giorni di malattia non saranno retribuiti: ma se pensano che qualcuno faccia il furbo fingendosi malato hanno già oggi tutti gli strumenti per colpirlo. Il fatto è che vogliono umiliarci, piegarci fino a spezzarci ma non ci riusciranno».
Ma è soprattutto il nodo della rappresentanza, dunque quello della democrazia, che più indigna Nina, indisponibile a farsi dire «dal padrone e dai suoi servi chi deve rappresentarci». «Quando è arrivato in Fiat, Marchionne parlava un'altra lingua, diceva che il costo del lavoro incide solo per il 7 per cento sul costo complessivo di un'automobile e dunque per recuperare competitività non si dovevano colpire i lavoratori ma intervenire su tutte le altre componenti che determinano costi e qualità del prodotto. Ora dice l'opposto, e mente. Pretende di ridurci alla condizione degli schiavi mentre se la Fiat non vende macchine, se perde quote di mercato in Italia e in Europa è perché non ha modelli nuovi e competitivi, l'unica cosa che interessa Marchionne è la Chrysler, è lì che fa ricerca innovativa mentre lascia deperire le fabbriche italiane. Dice che in Italia siamo sfaticati, mica come negli Usa, in Polonia, in Serbia, ma non dice che a Melfi, la fabbrica più giovane in Italia, gli operai ammalati, con ridotte capacità lavorative sono 2 mila 500, la metà esatta dei dipendenti. Ci stanno spezzando, e non gli basta ancora. Ci hanno diviso, hanno trasformato gli altri sindacati in complici del padrone, ma non avranno la nostra pelle. Non solo chi ha votato no, ma anche le operaie e gli operai che sono stati costretti a piegarsi al ricatto, per paura, perché hanno figli e mutui sul groppone, vengono da noi della Fiom a chiederci di resistere. Molti stanno strappando le tessere della Fim, della Uilm, del sindacato giallo. La partita non è chiusa».

Pubblicato il

28.01.2011 03:00
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