No a una vita sottoterra

«Chiudere i bunker! Rompere l’isolamento! Liberi/e tutti/e!». Con queste parole d’ordine, il Collettivo R-esistiamo ha fatto irruzione nel pacificato scenario cantonale sul tema della migrazione, portando un punto di vista radicalmente diverso alla visione dominante sulla questione dei richiedenti l’asilo in Svizzera. Nato nella primavera dello scorso anno, il Collettivo si è fatto conoscere attraverso numerose iniziative sul territorio, riuscendo in particolare a tematizzare la questione degli alloggi dei richiedenti nei bunker, chiedendone la chiusura perché inadatti a ospitare esseri umani, soprattutto per lunghi periodi.

 

Chi pensa sia un’idea estremista, si sbaglia. Alla medesima conclusione è arrivata la Commissione nazionale per la prevenzione della tortura (Cnpt), organo indipendente che, su mandato della Confederazione, verifica la conformità con i diritti fondamentali delle misure privative della libertà negli istituti di esecuzione delle persone recluse, richiedenti compresi. Nel suo ultimo rapporto, la Cnpt ha raccomandato la chiusura dei bunker quale alloggio dei richiedenti. La Segreteria di Stato della migrazione (Sem), «condivide l’opinione della Commissione», ha spiegato la portavoce Katrin Schmitter alla Rsi «e per il futuro l’obiettivo è di non dover più aprire alloggi sotterranei per il funzionamento ordinario». Il bunker di Biasca, dove alloggiano numerose famiglie con bambini per lunghi periodi, e quello di Stabio, entrambi di competenza della Sem, saranno dunque chiusi quando l’edificio a Novazzano sarà pronto (si stima nel 2022-2023). Anche del bunker di Camorino, di competenza invece cantonale, è prevista la chiusura, sostituito da un Centro polivalente che oltre ad ospitare i richiedenti, sarà utilizzato da esercito, protezione civile e polizia cantonale. Le autorità indicano quale possibile data di apertura il 2020-2021.


«Le persone vanno trasferite immediatamente in alloggi sopraterra per ragioni mediche» affermano oltre una sessantina di medici ticinesi che ha sottoscritto l’appello lanciato dal Collettivo R-esistiamo, le cui firme sono state consegnate ieri 21 marzo al Dipartimento sanità e socialità. «Ci sono persone che vivono da mesi, in alcuni casi da più anni, nelle difficili condizioni del bunker di Camorino. Le promesse di chiuderlo tra qualche anno non soddisfano certamente» spiegano alcuni membri del collettivo che incontriamo. «A quelle persone che sostengono di aver dormito benissimo nei bunker durante il militare, ricordiamo che lo hanno fatto per tre settimane. Non mesi o anni.» spiega Giobbe*.


Nella prima azione pubblica della scorsa estate, il collettivo ha voluto rompere l’isolamento fisico e sociale nel quale erano confinati i richiedenti proprio nel bunker di Camorino. Il medesimo bunker per il quale il responsabile di Argo 1 e dei poliziotti sono indagati in un’inchiesta aperta da due anni per averne ammanettato per sei ore un richiedente minorenne alle docce. L’azione del collettivo aveva portato alla denuncia pubblica delle pessime condizioni di aria, caldo e cimici in cui dovevano vivere i richiedenti.

 

A questa prima azione, sono seguiti altri momenti di scambio con le persone alloggiate nei centri sparsi per tutto il Ticino, perché la loro lotta non si limita alla chiusura dei bunker, ma pone la centralità del rispetto degli esseri umani in quanto tali e della solidarietà tra individui. Lo scopo del collettivo «è riportare al centro del dibattito pubblico le modalità di accoglienza delle persone in procedura di asilo, per eliminare lo stato di segregazione in cui vivono centinaia di persone. Riteniamo fondamentale battersi per dare la possibilità ad ogni persona di autodeterminare la propria vita a prescindere dal luogo di provenienza o dal documento che possiede» spiega Marina*. Perché dietro quel termine dispregiativo utilizzato da buona parte della classe politica di “asilanti”, ci sono uomini, donne e bambini in carne e ossa, con vissuti personali spesso fatti di sofferenze e privazioni indicibili. Per sfuggire a guerre, fame e povertà estrema rincorrendo l’umana ambizione a una vita normale, hanno superato avversità che noi, fortunati nati in Svizzera, possiamo solo immaginare.  


Tra gli scopi primari del collettivo vi è l’urgenza di «sfatare pregiudizi e stereotipi ben radicati in questo cantone», dove molte persone esprimono giudizi sui richiedenti senza averli mai conosciuti realmente.Oltre a cortei, azioni e comunicati di denuncia, nelle merende organizzate con regolarità nei pressi dei centri dei richiedenti, i partecipanti hanno conosciuto, ascoltato e discusso con le persone la loro condizione personale.


Le testimonianze raccolte cozzano con l’immagine positiva veicolata da istituzioni ed enti incaricati della presa a carico dei richiedenti. Ne è un esempio il centro Ulivo di Cadro, inaugurato un paio d’anni fa dalle autorità cantonali e dai vertici della Croce Rossa ticinese a cui è stata affidata la gestione. Una struttura con la capienza massima di 180 posti, «i cui ospiti beneficeranno di una presa a carico socio-educativa e sanitaria-assistenziale», spiegavano le autorità al momento dell’apertura.


Diametralmente opposta la visione del Collettivo dopo aver ascoltato le voci di chi in queste strutture è obbligato a viverci. «Nel centro di “accoglienza” di Cadro vivono persone migranti con differenti situazioni: famiglie in attesa di permesso di asilo, famiglie con permesso B, persone con decisione di non entrata in materia (Nem), persone con permesso F o con permesso N e persone vulnerabili (minori e donne sole). Collocata nella zona industriale in cui ci sono le due principali discariche del Luganese e il carcere la Stampa, – spiega Marina – è uno stabile in cemento armato con una recinzione e un cancello sempre chiuso, sorvegliato costantemente notte e giorno, e nel cui centro del cortile sorge una torretta panottica per controllarne ogni angolo permanentemente. C’è un sistema di video/audio sorveglianza esterno ed interno. Il centro è affollato, hanno riattivato l’uso delle baracche di fianco (ex sede della protezione civile) e la Croce Rossa sostiene che a causa del sovraffollamento non ha più tempo per i trasporti, sia per accompagnarli dal medico o a qualsiasi corso o attività sportiva. Ogni famiglia o persona viene seguita da un operatore della Croce Rossa, su cui ha il potere decisionale in ogni ambito. Alle 21 tutti devono essere in camera, non si devono sentire voci di bambini. Recentemente c’è stata una lite fra due bambini che sono stati chiamati in direzione per visionare i video registrati dalle videocamere per capire chi ha iniziato, e sono stati segnalati a scuola. Se in una famiglia ci sono delle liti, come potrebbe accadere a chiunque in una situazione di disagio del genere, le famiglie vengono minacciate di segnalazione all’Arp per togliere loro i figli».

Testimonianze difficili da appurare, come lo sono d’altronde le versioni dell’autorità. Conoscere di persona rimane la soluzione migliore.

*nomi di fantasia

 

Collaboratore Croce Rossa indagato

Non c’è pace al bunker di Camorino. Dopo il caso Argo 1, un’inchiesta che dura ormai da due anni sul responsabile dell’agenzia sicurezza e tre poliziotti della Cantonale per aver ammanettato per ore un ragazzo minorenne al tubo della doccia, un nuovo procedimento penale è stato aperto per appropriazione indebita nei confronti di un collaboratore della Croce Rossa Ticino, responsabile della gestione del Centro richiedenti l’asilo sotterraneo.Il Ministero pubblico ha confermato l’apertura di un procedimento per reati patrimoniali nei confronti dell’addetto della Croce Rossa, specificando che «i reati presunti non riguardano i cittadini stranieri presenti nella struttura».

 

Stando al portale Tio, in un approfondimento successivo alla nostra notizia, il collaboratore si sarebbe autodenunciato alla stessa Croce Rossa, raccontando ai superiori di avere effettuato vari prelievi dai conti bancari della ong a cui aveva accesso, per un totale di 20mila franchi nel corso di un anno. Soldi di cui aveva bisogno - ha raccontato - per far fronte a una situazione finanziaria personale difficile; e che aveva intenzione di restituire con il tempo. Contattata da area, quest’ultima preferisce non commentare.

 

Ad oggi, a essere indagati per aver picchiato e rubato nel bunker di Camorino, non sono dei richiedenti l’asilo, ma dei poliziotti, un agente di sicurezza e personale della Croce Rossa. 

Pubblicato il

21.03.2019 10:26
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