«Lo rifarei senza esitare»

Parla Johan Cosar, l'ex sergente dell'esercito svizzero condannato per aver combattuto contro l'ISIS in Siria

«Le condanne pronunciate all’epoca non corrispondono più all’attuale senso di giustizia. La lotta condotta allora per la democrazia merita di essere riconosciuta». Sono parole del Consiglio federale, espresse una decina di anni fa quando decise di riabilitare gli oltre 800 svizzeri che combatterono negli anni trenta in Spagna per la Repubblica contro le truppe del generale fascista Franco. 170 morirono sul campo, mentre quelli che rientrarono in Svizzera furono condannati in base all’articolo 94 del Codice penale militare che al suo capoverso uno recita: «Se uno Svizzero si arruola in un esercito straniero senza il permesso del Consiglio federale, è punito con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria». È il medesimo articolo per cui è stato processato a Bellinzona dal tribunale militare la scorsa settimana Johan Cosar, cittadino nato e cresciuto in Svizzera, per aver combattuto l’Isis in Siria nelle milizie cristiane, il Syriac Military Council (Smc) dal 2013 al 2015. Di origini aramaiche-siriache, (la popolazione di fede cristiana che vive nel vicino Oriente), con lo scoppio della Primavera Araba, Cosar decide nel 2012 di recarsi nel Nord della Siria per documentare da giornalista indipendente quel che avviene nel paese. Suo padre è una personalità molto conosciuta, impegnato sul fronte culturale, umanitario e politico a favore della comunità cristiana siriaca. Nell’autunno del 2013 scompare. Un rapporto dell’Onu afferma che sia stato arrestato dai servizi segreti siriani del presidente Bashar al-Assad. Da allora non si sa più nulla.


Nel frattempo, la situazione nel paese degenera rapidamente. La guerra civile si estende. Lo Stato islamico conquista territori all’interno della Siria, spingendosi fino alle regioni del Nord del paese, popolate in maggioranza da curdi, siriaci e altre etnie. Curdi e cristiani creano delle milizie popolari di autodifesa. Cosar, forte di quanto appreso nella carriera militare intrapresa in Svizzera (è sergente), mette le sue competenze a disposizione della formazione delle milizie cristiane Smc. Viene organizzata un’accademia militare, dove Cosar, nel ruolo d’istruttore insegnerà l’uso delle armi, l’allestimento dei check point e altre tecniche militari. Lo Stato islamico lancia diverse offensive per conquistare i villaggi della Regione. Cosar decide di essere più utile al fronte. Per tre anni combatterà lo Stato islamico, partecipando anche all’intervento congiunto coi miliziani curdi per liberare la popolazione civile yazida assediata dallo Stato islamico sul Monte Sinjar (Iraq). 50mila civili riuscirono a salvarsi grazie alla via di fuga aperta dai militanti curdi del Pkk, Ypg e siriaci, coperti in cielo dall’aviazione statunitense. Prima del loro arrivo, tremila yazidi furono assassinati e 6mila (in gran parte donne) furono rapiti dallo Stato islamico. L’Onu lo definì un genocidio. «Non c’erano scelte. Dovevamo difendere noi e i civili da una morte certa» ha detto Cosar in Tribunale.


La corte militare ha riconosciuto i motivi onorevoli del suo agire, ma la legge è legge, ha chiosato il giudice. Riconosciute le attenuanti che gli hanno evitato il carcere, Cosar è stato condannato a 90 aliquote da 50 franchi e una multa da 500 franchi, sospesi condizionalmente per due anni. La difesa di Cosar ha già annunciato il ricorso. Forse tra settant’anni, il governo federale chiederà scusa anche a lui.

 

 

L'intervista

«Lo rifarei senza esitare»


Johan Cosar, quando ha svolto il servizio militare nell’esercito elvetico, avrebbe mai pensato un giorno di mettere a frutto quanto imparato in una vera guerra?
Assolutamente no. Confesso che quando son partito per la scuola reclute, l’ho presa scherzosamente. Col senno di poi, devo dire che l’istruzione ricevuta è stata di ottima qualità, visto il risultato pratico.
Insieme ai suoi compagni e alle forze curde, lei ha partecipato a liberare dall’assedio sul monte Sinjar la popolazione civile yazida, accerchiata dallo Stato islamico. Cosa si prova ad aiutare dei civili a sfuggire allo sterminio?
Nel momento del conflitto, quasi non te ne rendi neanche conto. La soddisfazione si alimenta col tempo. Quando guardi i bambini, le donne e gli anziani nei villaggi intenti a svolgere le loro attività quotidiane, in sicurezza, comprendi di aver fatto qualcosa di buono, di importante. Hai contribuito alla loro sopravvivenza. Ti senti come un paramedico arrivato per primo nel luogo di un incidente, che salva una vita grazie alle cure urgenti prestate. La guerra è una cosa brutta che non consiglio a nessuno di vivere. Ahimè, purtroppo esiste. Io ho avuto la sfortuna di dover attivare le mie competenze in quel conflitto. Mi è andata bene, ma sono convinto che non avrei mai potuto vivere col rimorso se non lo avessi fatto.


A quattro anni dal suo rientro, le capita mai di ripensare alla guerra?
Ai momenti brutti no, a quelli belli sì. Certo, ci sono stati momenti molto difficili, come quando ho perso sul campo di battaglia dei ragazzi a cui avevo impartito i primi addestramenti. Ma quando inizi a combattere, devi essere consapevole fin da subito che ci saranno dei momenti difficili, che la guerra potrà portarti via delle persone care. Nel complesso però, ho sempre avuto una visione positiva di quel che ho fatto. Forse questo mi ha aiutato a non soffrirne oggi.


Lei ha visto negli occhi i miliziani dell’Isis. Come li definirebbe in una parola?
Codardi.


Ha speranza di rivedere suo padre dopo tanti anni?
La speranza rimane sempre accesa, nonostante il certificato di morte fasullo fornito dalle autorità siriane. Non avendo mai trovato il suo corpo, abbiamo la speranza che mio padre sia ancora in mano al regime siriano, da usare come merce di scambio.


I siriaci hanno collaborato molto con i curdi nel darsi delle regole sociali nella regione autonoma del Rojava, improntate sulla democrazia partecipativa nel rispetto dei popoli che abitano quelle terre. Come valuta questo esperimento politico?
Penso sia l’esempio più maturo e maggiormente democratico per stabilizzare una vita in armonia tra diverse etnie, popolazioni e credo religiosi. Sulla convivenza tra culture diverse, in Svizzera siamo l’esempio vivente del progetto nel Nord della Siria. Certo, il modello è sempre perfezionabile, ma quanto esiste sono le basi di un ottimo presupposto per il futuro. Le divergenze culturali sono tante, basti pensare all’uguaglianza uomo-donna, ancora un tabù nel mondo arabo, mentre lo è meno per i curdi o i cristiani siriaci. Ma è solo attraverso la democrazia implementata in Rojava che la società potrà progredire nel suo insieme.


Il tribunale militare l’ha condannata. Col senno di poi, rifarebbe quanto fatto in Siria?
Senza alcuna esitazione. Sempre.

Pubblicato il

26.02.2019 20:13
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