La mano invisibile

Corriamo il rischio di offrire una insalata russa di notizie. Potrebbe servire a render meglio conto di alcune realtà o del nocciolo delle questioni che pongono.
La responsabile di una delle maggiori casse-malati propone di portare la franchigia minima (ciò che ognuno dovrebbe pagare di tasca propria) a cinquemila o diecimila franchi. Renderemmo  responsabili gli assicurati; freneremmo l’aumento dei costi e dei premi. Ci si potrebbe chiedere a che cosa serva allora l’assicurazione malattia oppure se siamo in un Paese di nababbi. Interessano però l’argomento critico che torna spesso, anche per altre forme assicurative (Ai) e l’assenza di un valore fondamentale. L’argomento è quello della carente responsabilità individuale, vera causa di costi, sperperi e abusi. Sarà anche vero, ma quella carente responsabilità è sempre addossata a chi deve pagare e mai a chi pretende e incassa. Il discorso torna immancabilmente alle Camere federali quando è in gioco la politica sociale. Il valore dimenticato è quello della solidarietà. Nei due casi covano i problemi sempre schivati: la ricerca delle responsabilità, la ridistribuzione della ricchezza.


L’Ufficio federale di statistica informa che ci sono 600.000 poveri in Svizzera, il 7,5 per cento della popolazione. 140mila sono “working poors”, gente che lavora, ma ha un salario insufficiente. Il rischio di cadere sotto la soglia di povertà è del 14 per cento. Cosa da non crederci per il Paese europeo che ha il più alto reddito pro capite dopo il Lussemburgo (e in tanti non vogliono crederci, perché non appare). Le soglie di povertà sono 2.247 franchi al mese per una persona sola, 3.981 per un’economia domestica con due adulti e due figli con meno di 14 anni. Risulta ancora peggio. Il modo con cui è passata la statistica sgomenta. Dapprima si dà peso all’osservazione che “la povertà è un’esperienza passeggera”: in fondo, neppure l’uno per cento ha una povertà che dura più di quattro anni e quindi si ritrova presto un reddito che porta sopra la soglia di povertà. Poi si aggiunge l’immancabile raffronto  con l’Europa: la Svizzera ha un rischio di povertà tra i più bassi. Si tende così a far accettare che il saliscendi nella povertà è solo un incidente di percorso. Senza render conto che la povertà non è un problema di sopra o sotto una soglia artificiosa di reddito. È il problema di essere nella società, di sicurezza, di progettualità possibile, di relazioni sociali. Si tende a far passare l’idea che la miglior posizione in Europa convalida la politica fiscale che fa bene al ricco poiché la ricchezza sgocciola e giova al povero, che la politica del lavoro e salariale va intessuta con la moderazione e il ricatto competitivo.


Ho sottomano un libro da poco pubblicato, solidamente documentato, attuale, con un titolo curioso (Et si les salariés se révoltaient? - Fayard) che può servire da conclusione. È scritto da Patrick Artus, noto economista capo di una importante banca (Natixis). Perché i salariati dovrebbero ribellarsi? Perché da venti anni in qua è dimostrato come nei Paesi dell’Ocse (Paesi sviluppati, cui appartiene anche la Svizzera), la ripartizione dei redditi si è “continuamente deformata a danno dei salariati”, confrontati alla stagnazione del potere d’acquisto, all’addossamento a loro e ai loro costi di ogni colpa se l’impresa o l’economia vanno male, che scivolano nella povertà o vedono proliferare i lavori precari e sempre peggio remunerati. Perché sarebbe ora finalmente di riflettere “sui limiti sempre più flagranti di un capitalismo azionario all’angloamericana” che ci ha colonizzati, che si preoccupa  più degli azionisti o degli andamenti borsistici che dei salariati, dei consumatori, dei fornitori o dell’ambiente in cui si opera. È una sintesi, appare forse semplice o ovvia, ma è proprio da lì che bisogna passare e lo dice un insospettabile.

Pubblicato il 

19.04.18
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