A Roma, il giovane e promettente olandese Andy Van der Meyde segna una rete dopo un minuto, s'inginocchia e, imitando l'argentino Gabriel Batistuta, lascia partire una sventagliata con il suo "Skorpion" a canna mozza: Andy di solito non segna "a mitraglia"; è piuttosto un cecchino isolato, pronto a impallinare l'estremo difensore avversario. Andy gioca nell'Ajax che in realtà non è un detersivo in concorrenza con il Dixan e il Persil ma Aiace, sconfitto da Achille, "pié veloce" in una memorabile gara descritta da Omero. Aiace è in testa, ma inciampa nel "fimo di bue" e perde. Invece di dare la colpa al giudice di pista, il prode guerriero attribuisce il fatto al volere imperscrutabile della dea Atena che rende onore e giustizia al più valoroso, cioè ad Achille. Questa scena è tolta dalle vicende della terribile guerra di Troia e descrive un attimo di tregua: i giochi funebri in onore di Patroclo che culmineranno con lo sgozzamento di 12 prigionieri troiani sulla pira. La guerra e lo sport descritti in estrema vicinanza. La dea Atena che di fatto è stata arbitro della contesa sportiva, poco prima della fondazione dei Giochi Olimpici, nel settimo secolo a.C., per bocca dell'oracolo emette una memorabile sentenza indirizzata a Licurgo re degli Spartani e ad Ifeto re degli Elei: "la corona della vittoria sia conquistata nel recinto sacro di Olimpia e non più sui campi di battaglia". Il giavellotto dunque non più per trapassare il corpo del nemico ma per essere scagliato il più in alto e il più lontano possibile. Lo sport dunque come rappresentazione incruenta della guerra, come sublimazione degli istinti ferini insiti nell'uomo. Come simbolo della battaglia mortale. Ma all'interno della stessa Grecia s'erge chi si scaglia in modo sprezzante contro il grande bardo cieco che dichiara la guerra "flagello degli dei". "Omero meriterebbe di essere espulso dagli agoni", dice Eraclito, "non ha capito che senza Polemos che è padre di tutte le cose, senza conflitto, senza contesa, il mondo non può esistere". Polemos è il cinese Yang e Yin, maschile e femminile, giorno e notte, sole e luna, caldo e freddo che fa girare il mondo, o è il massacro, la guerra uomo contro uomo? Non lo sapremo mai. Ciò che invece sappiamo è che sia in tempo di guerra che in tempo di pace il linguaggio è lo stesso. I generali americani e inglesi ci informano che la performance dei loro boys è soddisfacente, che ormai stanno per arrivare alla meta e che fra poco penetreranno nei bunker nemici. Ci saranno "cannonate" come quelle di Nordahl, "missili" come quelli sparati da Vieri; il nemico sarà "massacrato". Sarà "umiliato", o "ridotto a polpette". Il linguaggio della guerra e dello sport è rimasto lo stesso. Con un'enorme differenza: la partita nello sport ha delle regole, un arbitro, degli spettatori e un risultato finale. Nella guerra non ci sono regole, l'arbitro è stato licenziato dalla parte più forte, il pubblico non è presente, i giornalisti nemmeno perché sono solo ripetenti, e il risultato finale in questa eterna partita degli umani, non è mai definitivo né noto.

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28.03.03

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