Dopo Charlie Hebdo/3

L’uccisione a sangue freddo in casa loro, la redazione parigina, dei fumettisti di Charlie Hebdo, Georges Wolinski, Jean “Cabu” Cabut, Stéphane “Charb” Charbonnier, Bernard “Tignous” Verlhac, Philippe Honoré e dell’economista Bernard Maris può essere interpretata come un passo avanti nella mediatizzazione del terrore. Gli uomini che hanno fatto irruzione nella redazione parigina erano ben addestrati e motivati da odiosi sentimenti di rivalsa per i toni anti-islamici e blasfemi delle vignette del giornale.


Fin qui i jihadisti dello Stato islamico (Isis) in Iraq e in Siria e prima i loro antenati di al-Qaeda avevano usato i giornalisti come mezzo di baratto attraverso rapimenti e uccisioni a sangue freddo. Ma ora hanno fatto un passo in più.


L’apice di questa strumentalizzazione della stampa occidentale impegnata in teatri di conflitto è in corso ancora in Siria e in Iraq. Dallo scorso agosto non fa che allungarsi la lista degli ostaggi nelle mani dei jihadisti di Isis brutalmente decapitati, come se fossero truppe di terra di un Occidente scioccato più da un video che da undici anni di conflitto in Iraq. L’ultimo in ordine di tempo è stato il contractor giapponese Haruna Yukawa. Con lui, sono sei gli ostaggi occidentali decapitati da Isis, soprattutto reporter freelance, quasi vittime collaterali di una guerra che ha come primo obiettivo la stampa.


Eppure, con l’attacco a Charlie Hebdo non solo i media sono diventati chiaramente un obiettivo sensibile dei jihadisti, ma i radicali hanno fatto un salto di qualità. Non hanno più bisogno di uccidere solo questi “soldati dell’informazione”, lasciati a loro stessi dai loro governi e dai loro committenti, ma possono entrare direttamente nelle redazioni e “decapitare” tutte le “conquiste democratiche” occidentali, a partire dalla libertà di informazione. E così da oggi sono vulnerabili non solo quei reporter che per definizione si auto-impongono la partenza per scenari di conflitto, in nome di un facile (mica tanto) guadagno, ma anche i giornalisti da ufficio, gli editori, che fin qui sembravano intoccabili e si sentivano forti della turris eburnea, del loro telefono e della loro matita.


Per questo, l’esempio più eclatante di manipolazione dell’informazione, il reportage da Mosul dell’ostaggio britannico John Cantlie (commissionato cinicamente dai suoi stessi rapitori jihadisti) che fa propaganda per conto di Isis raccontando come si svolge la quotidianità nello “Stato islamico” è il paradosso di un Occidente che ha perso il controllo non solo della democrazia ma anche dell’informazione, uno dei mezzi essenziali per la formazione delle opinioni.


E così Isis, i suoi antenati e le cellule isolate che si ispirano a questo modello sono riusciti a ottenere successi in Iraq e Siria prima, e nel mondo ora, semplicemente fabbricando storie orribili di violenza efferata, come orribile è la brutalità con cui i 12 della redazione di Charlie Hebdo
sono stati uccisi. Sono riusciti ormai a creare l’immagine fittizia che lo Stato islamico si trovi dovunque, a Parigi come sulla cupola di San Pietro a Roma. Questo non fa che confermare la strategia sofisticata di comunicazione che usano i jihadisti e la loro estrema dipendenza da queste tecniche per convogliare i loro messaggi, lanciare la loro propaganda e proclamare la loro costruita ubiquità.


Questo significa però anche che la rappresentazione che i media danno di un grave attentato come quello di Parigi ha conseguenze ben più diffuse di quel che si pensi. E costruisce una realtà fittizia di assedio che occulta la verità: dai disastrosi interventi armati in Medio Oriente allo squallore dei fanatici che hanno ucciso a Parigi in nome di una religione in cui non credono, dal continuo sostegno internazionale al terrorismo islamico attraverso i paesi del Golfo alla fine del sogno democratico dopo le rivolte del 2011. L’informazione mainstream è profondamente disorientata. Ma nessuno si stupisce più che i media di tutto il mondo continuino a fare da cassa di risonanza della propaganda dei jihadisti, finché un fanatico non busserà alla porta anche della loro redazione.

 

E così secondo il grande filosofo ed economista egiziano Samir Amin, gli attacchi di Parigi sono «una conseguenza diretta della politica occidentale in Libia». Per il direttore del Forum del Terzo mondo, con sede a Dakar, «in particolare il sud della Libia è diventato una base di approvvigionamento gigantesca. Quella regione è stata strategica per la Francia, senza di essa l’esercito francese non sarebbe potuto intervenire in Sahel. Dirò di più. Credo anche che la tempistica degli attacchi abbia una relazione con l’avanzata dell’esercito francese dal Ciad dei giorni scorsi – prosegue Amin –. I jihadisti hanno voluto riaffermare che il sud della Libia deve rimanere la loro base e una terra di nessuno. Ovviamente tutto questo è poi conseguenza diretta degli attacchi della Nato contro il colonnello Muammar Gheddafi del 2011». Secondo il filosofo marxista, «la responsabilità di questi attentati è di Francia e Stati Uniti. Le potenze occidentali continuano a sostenere Arabia Saudita, Qatar e paesi del Golfo. Consentono tutto a questi Paesi, che danno un appoggio gigantesco al terrorismo.

 

Per essere più chiari, le potenze occidentali considerano l’alleanza con i paesi del Golfo un fondamento della politica neo-liberale. Il secondo errore occidentale – argomenta l'economista – è di aver combattuto gli autocrati che hanno cercato di porre un freno all’Islam politico, da Saddam Hussein a Muammar Gheddafi. Per esempio in Iraq Saddam Hussein ha chiaramente contenuto gli islamisti. Sebbene riuscisse ad assicurare la coesistenza tra sciiti e sunniti è stato brutalmente deposto. E poi Gheddafi: è stato combattuto ma aveva contenuto le derive islamiste in Libia». Il solo obiettivo delle potenze occidentali è portare avanti la loro politica neo-liberale. Secondo Amin, «il mondo si divide in due: i Paesi che appoggiano incondizionatamente il neo-liberismo sono i soli amici dell’Occidente, anche se si tratta di odiosi islamisti; i Paesi recalcitranti sono invece nemici della dittatura del capitale internazionale. In altre parole, le potenze occidentali hanno un solo criterio: il liberismo assoluto. A chi lo sostiene gli si perdona tutto. E la democrazia non ha niente a che vedere con questo».

 

Pubblicato il 

29.01.15
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